La vita oltre la vita
di Giuseppe Bufalo
Da secoli, in occidente, la morte è soggetto di terrore. Non solo ci colpisce dolorosamente strappandoci gli esseri ai quali teniamo di più e minacciando noi stessi nel mezzo dei nostri progetti più cari, ma, con l’incognita che essa nasconde è presaga di terribili minacce che niente può scongiurare.
Così, è spesso descritta con immagini che mettono in risalto la sua natura orrida e implacabile, come nelle danze macabre del Medioevo. E bisogna aggiungere che gli insegnamenti esteriori delle religioni non hanno fatto che aggravare questo clima di paura. Uomo tra gli uomini, lo stesso Gesù, sulla Croce, avrebbe conosciuto l’angoscia della morte al momento di spirare, e si sarebbe sentito abbandonato dal suo Dio (Matteo, 27,46). Tutto questo, purtroppo, preso alla lettera, da alla morte un’immagine terrificante, e colpevolizzate dall’idea del peccato, le masse popolari hanno visto in essa il simbolo stesso del castigo assoluto.
In queste condizioni, l’atteggiamento più corrente nei confronti della morte è il silenzio. Argomento tabù, ci sforziamo di dimenticarla, di non parlarne, viviamo come se non dovesse mai arrivare. E ci tranquillizziamo immaginando i defunti che “dormono l’ultimo sonno”. Però è anche vero che la situazione si è evoluta fin dal XIX° secolo, con lo sviluppo dello Spiritismo, e soprattutto nel XX° secolo fino ad oggi, con il progresso della scienza. Le comunicazioni con gli Spiriti, tramite i medium, hanno contribuito a dare l’impressione che l’aldilà sia un soggiorno più luminoso del nostro, e che la morte altro non sia che una liberazione benefica.
Oggi, le inchieste condotte da ricercatori scientifici rinomati (come il Dottor Raymond A. Moody e suo figlio, la dott. E. Kubler-Ross, e diversi altri) contribuiscono notevolmente a scongiurare la paura della morte. Quando possono descrivere le loro esperienze interiori, le loro visioni, i moribondi non descrivono affatto dei racconti spaventosi. Alcuni ricercatori americani come Karlis Osis, hanno costatato che il contenuto di quegli esperimenti è d’altronde comparabile anche tra persone di civiltà diverse. Gli scampati alla morte, rianimati in extremis, dopo aver cessato di vivere, per un periodo più o meno lungo, riferiscono delle impressioni che non hanno nulla di allarmante: al contrario, la pace che hanno avvertito aveva una forza tale che essi sono ritornati alla vita solo con rimpianto (vedi, a questo proposito “La Vita dopo la Vita” del Dr. Moody e “Nuove ipotesi della Vita dopo la Vita” del Dr. Moody Junior).
Queste constatazioni che scuotono le idee stabilizzate sulla morte, contribuiscono a sanare il clima di paura che alimentava, ma sono l’occasione di discussioni, spesso sterili e ripetitive, tra “credenti e miscredenti”. Come sempre, ad immagine delle persone della caverna di Platone, gli uomini hanno tendenza ad inventare spiegazioni (generalmente materialistiche) dei fatti che scoprono, senza sospettare che la realtà è, in effetti, totalmente diversa, poiché non hanno alcuna idea di quello che esiste fuori dalla caverna.
L’insegnamento della Teosofia sulla “Vita dopo la morte” non è allegorica, ma è il risultato dello sforzo compiuto da H.P.Blavatsky per mettere alla nostra portata i fatti di esperienza osservati direttamente dai Maestri, che hanno acquisito il potere di esplorare coscientemente questo mondo, per noi pieno di mistero, dove le Anime umane proseguono la loro esistenza dopo aver lasciato il corpo fisico, e prima di reincarnarsi.
Quest’insegnamento si iscrive nel quadro logico di tutto quello che abbiamo esposto precedentemente; non saremo quindi sorpresi nello scoprire che la morte è un fenomeno naturale, nel quale tutti i processi obbediscono a delle leggi logiche, che contribuiscono efficacemente al progresso dell’Anima, permettendole non solo di accedere al riposo prima di una nuova incarnazione, ma anche di assimilare tutta la ricchezza delle sue esperienze terrene.
Come abbiamo già visto, il Karma interviene durante tutte le fasi della vita dell’essere in incarnazione, ma la legge della Natura qui appare misericordiosa, contrariamente a ciò che insegnano le religioni, sui vari castighi previsti per punire i peccatori dopo la loro morte. E’ soltanto in un’altra vita sulla terra che l’Anima dovrà far fronte alle conseguenze dei suoi errori.
Analogie tra il sonno e la morte:
Nel mondo greco si diceva che il sonno (Hypnos) era fratello della morte (Thanatos). In effetti le analogie tra i due sono numerose; ancor più strette sono se si fa seguire la rinascita alla morte. Ad un osservatore esterno, un dormiente sprofondato nel sonno non è affatto diverso da un morto, se si guarda all’immobilità del suo corpo, all’assenza di qualsiasi manifestazione di coscienza e di volontà, alla calma della sua espressione. L’analogia termina se si pensa che il dormiente si sveglierà, ma non il morto.
Ma la Teosofia ci invita a non identificare l’uomo con il suo corpo: sotto l’apparenza del riposo del corpo, la coscienza del dormiente è molto attiva, come quella dell’uomo nel momento del decesso. Nei due casi, essa si è ritirata progressivamente, dal mondo delle sensazioni fisiche fino ad un piano di esperienza soggettiva.
Si sa per certo che alcuni problemi assillanti durante il periodo di veglia, trovano la loro soluzione durante il sogno. Lo stesso accade per gli ultimi pensieri del morente, quelli dominanti durante la grande rassegna finale, formeranno la nota caratteristica per l’esperienza post-mortem. Sia il sonno che la morte offrono all’Anima l’occasione per un riposo riparatore e l’assimilazione delle esperienze terrestri.
I ricercatori scientifici hanno costatato che il periodo notturno consacrato a sognare è indispensabile per l’equilibrio vitale degli esseri. Allo stesso modo, l’attività psichica dell’Anima nel Devachan (lett.: “La dimora degli Dei”) ha un carattere particolarmente benefico, di cui purtroppo non approfittano quelli che, durante tutta la loro vita terrena, hanno negato qualsiasi possibilità di sopravvivenza.
Nella pratica, queste analogie sono interessanti; bisognerebbe poter dare un posto alla morte nella dinamica della nostra vita, così come vi integriamo il sonno. Nel ritmo della nostra esistenza, il sonno ha il suo posto ed è una necessità accettata. Vi è un igiene del sonno che fa da contraltare all’igiene della vita attiva. Non ci si lascia “cadere” a caso nel sonno, senza prepararvisi, per dormire in modo riparatore sia per il corpo che per il mentale ed il cuore. Sarebbe altrettanto auspicabile non “cadere” a caso nella morte, ma prepararvisi.
Se sappiamo utilizzare la nostra volontà per raggiungere la calma in noi stessi, perché è finalmente giunta l’ora di dormire, e per occupare la mente con l’immagine spirituale che desideriamo realizzare quaggiù, l’addormentarsi sarà più piacevole e quest’ultimo pensiero potrà risvegliare qualche eco nel nostro essere profondo durante le ore notturne.
Nel momento della morte, questa preparazione al sonno, a lungo ripetuta durante gli anni, dovrebbe aiutarci naturalmente ad abbordare la morte allo stesso modo del sonno, cioè nella calma, e con un’attiva volontà capace di fissare la nostra mente sull’immagine dell’ideale che desideriamo perseguire ancora nella successiva incarnazione.
Platone ha ben osservato che la morte non è che un passaggio, ma bisogna diffidare dalle spiegazioni semplicistiche di alcune scuole attuali, secondo le quali l’Anima, liberata dal corpo al momento del decesso, avrebbe la facoltà di percorrere a suo piacimento il mondo astrale. In realtà, come ha insegnato Plutarco, l’itinerario dell’Anima dopo la fine della vita terrena passa attraverso due morti distinte, separate da un intervallo di tempo di durata variabile.
La prima morte – che è la morte fisica – può, alcune volte essere violenta; separa l’uomo settuplo in due parti le cui sorti sono differenti:
– il cadavere, con il suo doppio eterico privato di ogni legame con l’Ego Immortale, è destinato a una decomposizione più o meno rapida.
– L’Ego Immortale rimane legato ai Corpi Astrale e Mentale, che sono serviti da base all’attività psichica ed emozionale della personalità terrestre. Quest’entità astrale conserva una certa vitalità (un aspetto energetico di prana) che gli conferisce una coesione, permettendogli una sopravvivenza, (nel Kama-Loka: Luogo del Desiderio) a volte considerevole.
La seconda morte, corrisponde ad un processo naturale molto più lungo del primo; permette all’Ego Immortale di liberarsi progressivamente del Corpo Astrale, che finisce per rigettare nella sfera astrale della Terra, come una specie di cadavere psichico (Kama-Rupa: Corpo del Desiderio) destinato ad una disgregazione generalmente molto più lenta di quella del cadavere fisico. Chiamiamo spesso “guscio astrale” questa parvenza di anima, priva di ogni coscienza ragionata. In effetti, in questi gusci astrali, rimane “l’odore” della coscienza del suo possessore.
Questo spoglio progressivo, in quello che è chiamato il Kama-loka (lo stadio della vita post-mortem dove le forze e le immagini del desiderio hanno la facoltà di darsi libero sfogo) corrisponde al purgatorio delle religioni. In questo stadio l’essere soffre di tutte le sofferenze che ha prodotto durante la vita ai suoi simili ed alla Natura. Egli però non soffre coscientemente della grande separazione che avviene tra gli aspetti puramente egoistici e terreni della personalità e gli elementi superiori.
Notiamo che questa seconda morte non mira solo a liberare l’Ego Immortale da uno strumento psichico ormai inutilizzabile, ma permette anche all’Anima di portare con sé il “bottino” spirituale della vita trascorsa, che servirà da base all’esperienza della fase seguente, chiamata Devachan, secondo un termine orientale che evoca uno stato di piena felicità (lett.:“La dimora degli Dei”)
A questo punto, l’Ego Immortale, liberato da tutti i suoi strumenti psico-fisici, si prepara al Devachan attraverso un periodo di gestazione, più o meno lungo, durante il quale egli si avvolge di tutto il tessuto di immagini e di aspirazioni ideali della sua personalità per trarne tutto il succo, per tutti i lunghi anni di sogno paradisiaco, nel quale si rinchiuderà in profonda contemplazione.
Il guscio astrale che è ancora pieno di energie e di desideri per la vita terrena, a sua volta và alla deriva nelle correnti della Luce astrale. Esso può essere attirato magneticamente verso esseri viventi, come i medium. E poiché questi gusci astrali sono portatori di tutta la memoria dettagliata della vita trascorsa, è possibile, in una seduta spiritica, entrare in contatto con esso ed ottenerne numerose informazioni, dando ai presenti l’illusione perfetta di comunicare con la vera Anima del defunto.
A questo stadio dell’esperienza post-mortem, la Teosofia esclude ogni possibilità di dialogo (possibile nello stadio precedente) con l’Ego Immortale che, nel suo mondo Spirituale, è al fuori della portata degli strumenti psichici degli uomini incarnati. Nelle visioni celesti del Devachan, L’Ego Immortale assapora una felicità assoluta, nella quale riceve le compensazioni per le sofferenze che l’uomo aveva sentite come immeritate; dà libero sfogo a tutte le sue aspirazioni frustrate e vive pienamente l’ideale che aveva sognato, che non aveva potuto raggiungere in vita.
E’ ancora prigioniero di immagini personali, ma ne assimila la quintessenza e, al tempo stesso, esercita pienamente i suoi poteri di ideazione, in attinenza con i temi più spirituali della vita umana. Si capisce che questo periodo prolungato di riposo e di assimilazione è indispensabile per l’Ego Immortale, che si colloca integralmente nel programma naturale della sua evoluzione, che mira all’incarnazione del Divino nell’uomo.
Per la Teosofia, il tempo di “residenza nel cielo” non è eterno. Prima o poi, le energie che sostengono e mantengono l’Ego Immortale nella sua esperienza soggettiva, vengono ad esaurimento. Poiché tutti gli elementi della personalità terrena sono stati assimilati dall’Anima, oppure rigettati durante la seconda morte, di questa personalità non rimane più niente che sia capace di trattenere l’Ego Immortale in un’esperienza di coscienza. Presto suonerà l’ora della rinascita in un quadro interamente nuovo. Ma nulla di ciò che è meritevole di essere conservato andrà perduto, e l’Ego Immortale conserverà sempre la memoria integrata di tutte le sue vite passate.
Quindi, come si può vedere, l’avventura umana, dopo la morte fisica, obbedisce ad un programma che appare perfettamente logico e necessario, dal momento che si conosce la costituzione settupla dell’uomo vivente. Constatiamo anche a che punto tutti questi processi riflettano l’economia della Natura, obbedendo sempre alla Legge Karmica. Vediamo pure che la morte è un mondo di effetti, subiti dall’Anima senza che la sua volontà intervenga, per lo meno nello stadio attuale dell’evoluzione.
Parliamo ora di ciò che avviene nei momenti che precedono immediatamente o seguono il decesso:
Il processo dell’arresto della vita avviene per tappe sul piano fisico; è accompagnato da una progressiva ritirata della coscienza, che, dapprima, perde l’uso degli organi di azione volontaria e dei sensi (l’udito può spesso restare attivo a lungo) per risalire, in seguito, gradualmente, dal piano delle emozioni e dei pensieri terreni, fino alla radice della coscienza personale.
Durante questa risalita, Helena Petrovna Blavatsky precisa che il morente potrebbe avere delle visioni di coloro che ama e che pensa di più. Il Dr. Moody asserisce che, alcune persone tornate dalla morte hanno confermato di essere stati accolti nell’aldilà da parenti deceduti, venuti a rassicurarli e a condurli verso il loro destino. Queste apparizioni, più o meno fugaci, lasciano in seguito posto all’esperienza decisiva del passare in rassegna tutta la propria esistenza.
Riflettiamo sulle caratteristiche di questa visione: essa è completa ed integrale (tutto è rivisitato fedelmente, fino al più piccolo dettaglio); mette in luce la sottile concatenazione tra causa ed effetto di cui è stata intessuta l’esistenza; è obiettiva (l’uomo si vede quale è stato realmente) ed è vissuta al di fuori del dominio delle emozioni.
E’ sicuramente un’esperienza solenne, una sorta di illuminazione che si impone alla coscienza con forza e chiarezza: pazienti rianimati in extremis hanno più volte dichiarato al Dr. Moody di essersi trovati di fronte ad una presenza soprannaturale – un Essere di Luce pieno d’amore e comprensione – che li faceva assistere a questa visione retrospettiva della loro esistenza. Questo Essere luminoso e comprensivo non ci deve sorprendere, specie se pensiamo alla natura dell’Ego Superiore che è quasi onnisciente nella sua natura immortale.
Ne “La Chiave della Teosofia” è chiamato “Filo Dorato”, ma è anche, per la personalità terrena, come un congiunto che la sostiene instancabilmente con i suoi poteri durante tutta la sua esistenza. Si capisce perché i morenti si sentano amati e totalmente capiti da questo Essere di Luce, senza dover neanche parlarsi. Alcuni di questi rinvenuti hanno addirittura assicurato di aver fatto con Lui una sorta di esperienza di totale onniscienza (vedi: “Luci nuove sulla vita dopo la vita” del Dr.Moody). Ne “La chiave della Teosofia”, H.P.Blavatsky fa riferimento in più punti a questo carattere quasi onnisciente dell’Ego Immortale o Anima.
Notiamo che queste esperienze dei morenti sono totalmente sorprendenti per coloro che le vivono, che essi generalmente le interpretano nel quadro delle loro credenze religiose: sono persuasi che Dio, o il Cristo è apparso loro. Ne “L’Oceano della Teosofia”, W.Q. Judge, distingue – in prossimità della morte – fra i fenomeni esteriori legati alla fisiologia (sintomi della morte, la concentrazione delle forze del corpo e del mentale nel cervello, la cui attività si svolge ora a beneficio dell’Ego Immortale) e le esperienze peculiari della persona che lascia questo mondo, non in fretta, bensì quando il suo compito sia terminato. Infine, dopo il bilancio dell’esistenza e la lotta dell’uomo per sganciarsi dal corpo, l’astrale si stacca dall’involucro fisico: la morte è allora definitiva e la vita nel corpo fisico si spegne, come la fiamma di una candela su cui si soffia.
Cerchiamo ora di chiarire le differenze che esistono tra la morte naturale e quella violenta, e quali sono le conseguenze nell’aldilà:
La morte violenta è in un certo qual modo un avvenimento contro natura: non ne sono preparate la parte fisica, né la sua controparte astrale e vitale dell’essere. Essa sorprende la persona prima della fine del suo “programma biologico”, e spesso quando è ancora in piena forma fisica e psichica. Così, brutalmente privato del suo corpo fisico, questo essere resterà ancora “vivo”, fino a quando il vero termine naturale della vita sia sopraggiunto, che si tratti di un mese o di sessant’anni. Solo allora la forza coesiva dei principi inferiori si sarà esaurita, e il processo della seconda morte potrà cominciare.
In questi particolari casi, lo stato di “morte parziale”, viene di norma vissuto in una semi-incoscienza, se l’individuo apparteneva alla media degli esseri umani. Ma se si tratta di un essere perverso, pieno di appetiti grossolani, o pieno di rancori nei confronti dei suoi simili, o della società (è il caso di criminali giustiziati), oppure se ha messo fine alla sua esistenza volontariamente, disperato per non poterne più godere a volontà, non può sfuggire ad una determinata esperienza cosciente del Kama-Loka, che molto probabilmente è dolorosa. Se un uomo muore – anche di morte naturale – con un violento desiderio di vivere, o eventualmente di portare a termine la sua missione, può accadere che l’entità, privata del proprio corpo, rimanga per un certo periodo nell’ambiente terreno, manifestandosi persino ai vivi (senza per altro esserne consapevole).
Per quanto riguarda i giustiziati, o i suicidi, l’energia del desiderio che li trattiene prigionieri nel nostro mondo può essere ancora più forte: vi è persino il rischio che diventi parassita di alcuni viventi che sono indotti allora, causa la loro natura troppo passiva, a manifestare a loro volta le caratteristiche dell’entità trapassata. Lo stato di coscienza dell’essere disincarnato, morto in situazioni tragiche, può essere drammatico. Egli rivive un incubo ricorrente, in cui sono incessantemente passate in rassegna, in ogni dettaglio, le drammatiche circostanze che lo hanno portato alla morte. Notiamo che alcuni sopravvissuti al suicidio hanno confermato al Dr. Moody quanto è stato già formulato molto più di un secolo fa dalla Società Teosofica.
E’ facile capire come la durata e la qualità delle esperienze postume siano essenzialmente variabili da uomo a uomo, direttamente in relazione con la qualità e la molteplicità delle esperienze terrene. Per esempio, se l’individuo ha dato libero corso ad ogni tipo di passioni e desideri, mobilitando a tal fine tutte le energie disponibili (materiali e spirituali), ha creato in sé stesso una sorta di entità astrale o psichica, potente, capace di sopravvivere a lungo nella sfera del Kama-loka ed alla quale l’Ego Immortale dovrà – per così dire – strappare con fatica le energie psichiche omogenee alla propria natura spirituale: si presume che la durata del processo di questa seconda morte non possa essere paragonato a quella che vivrà un uomo puro e totalmente consacrato ad una nobile causa.
La regola, per chi muore di morte naturale, è che resterà nella sfera d’attrazione terrestre (il Kama-loka ) per un periodo che va “da pochi giorni a qualche anno”. Vi sono tuttavia delle eccezioni, come abbiamo accennato sopra. Per quanto concerne il Devachan, per la media degli individui esso dura alcuni secoli. Ben inteso, se si prende in considerazione ogni singolo essere, il tempo che intercorrerà realmente tra la sua morte e la sua reincarnazione può variare considerevolmente. Può accadere persino che un individuo non faccia nessuna esperienza nel Devachan (come il caso di un essere grossolano, pieno di egoismo).
Come abbiamo già visto, questa esperienza non dipende soltanto dalla ricchezza delle energie spirituali da assimilare per l’Ego Immortale: essa viene attivata dalla fede nella sopravvivenza. Vediamo quindi a qual punto la durata ed il contenuto della vita dopo la morte fisica siano sottomessi alla Legge del Karma: la morte apre un campo di esperienza in cui l’uomo raccoglie le esatte conseguenze dei suoi atti e pensieri volontari, nei limiti concessi dagli strumenti di cui dispone per questa esperienza.
Riassumendo, bisogna distinguere, per quanto riguarda il Devachan, tre categorie ben distinte:
1 – Gli esseri umani materialisti e grossolani – anche se si professano seguaci di una religione – senza alcuna ricchezza interiore da raccogliere: questi si reincarneranno dopo poco tempo;
2 – Gli uomini che, benché buoni e generosi, professano un incallito scetticismo nei confronti dell’Anima e del suo divenire dopo la morte del corpo fisico: costoro si privano dell’esperienza vivificante dell’assimilazione delle loro energie spirituali. Questa assimilazione avviene comunque, ma in un registro incosciente, paragonabile al sonno profondo di un bambino. La loro unica possibilità di Devachan cosciente è collegata alle aspirazioni che possono aver avuto nell’infanzia o nell’adolescenza, prima cioè di adottare definitivamente le idee materialistiche.
3 – La maggioranza degli esseri umani che conservano l’idea innata della loro immortalità. Costoro costituiscono la maggioranza.
Quale pura mente, coperta di una veste assai eterea, che poi abbandonerà quando giunge l’ora del ritorno sulla Terra, l’Ego Immortale, chiuso nella sua esperienza paradisiaca, si stacca poco a poca dalla morsa della sua vecchia personalità, per accedere infine a piani di coscienza più universali. L’Ego Immortale, svegliato dal suo sogno, dopo aver “digerito” nel Devachan tutti gli elementi nutrizionali ricavati dalla sua vita terrena, ritrova per un attimo la libertà della propria piena coscienza manasica, mentre i legami Karmici che lo riportano nella prova dell’incarnazione, si riaffermano.
La costruzione dei nuovi involucri, che l’Ego Immortale utilizzerà, avviene sulla base di un programma in cui intervengono gli elementi attivi della personalità antecedente: gli Skandha, che erano rimasti allo stadio di germi per tutta la durata del Devachan, ma che ora si riattivano, come effetti Karmici, per fissarsi nei tratti e nelle tendenze della nuova personalità. Dal punto di vista della coscienza, il ritorno sulla terra è caratterizzato dal fatto che l’essere cade in uno stato di incoscienza, che è un periodo di oscurità e di sonno profondo. Questo stato è caratteristico del passaggio di un piano d’esperienza ad un altro. Questo però non è il caso, come abbiamo già visto, dei Maestri di Saggezza che rimangono coscienti anche durante tale passaggio.
La Teosofia ci da qui un fondamentale insegnamento: proprio prima della nascita, l’Ego Immortale ha una visione prospettiva della vita che lo attende, e percepisce all’istante tutte le cause che lo hanno condotto nel Devachan e che lo riportano alla nuova vita. Con la sua piena coscienza Manasica, egli vede il concatenamento di tutte le sue vite, con le loro giuste conseguenze sull’istante presente e i futuri prolungamenti. Egli non borbotta, ma si fa nuovamente carico della propria Croce: “Un’altra Anima è tornata in Terra”.
Possiamo notare una specie di simmetria tra il movimento che allontana l’Ego Immortale dall’incarnazione e quello che ve lo riconduce: la visione retrospettiva che avviene al momento della morte è essenzialmente accentrata sulla vita appena trascorsa. Eccezionalmente, se l’essere è particolarmente puro, questa visione può inglobare la catena logica di più esistenze. Al ritorno, l’Ego Immortale, libero dalla catena dei legami della sua vecchia personalità, ha una visione ben più ampia, ma in quest’istante, siccome è di nuovo riagganciato ad un preciso contesto terreno (proprio prima della nascita), le linee karmiche della vita che lo attende sono perciò molto ben tracciate, per permettergli di percepirne nettamente l’orientamento e persino il contenuto.
L’ora della nascita è il momento in cui l’essere viene a porsi nel complesso campo delle forze cosmiche, per subirne le congiunte influenze, conformemente alle linee del suo Karma, e allo scopo di progredire sulla strada dell’evoluzione. Da tutto ciò possiamo vedere come l’Ego Immortale non scelga la sua nuova incarnazione, ma si pieghi ai dettami della Legge Karmica. Bisogna insistere sull’idea che la morte non è una catastrofe irrimediabile che pone una fine definitiva alla vita: se capita che un esperienza si ferma su di un piano, significa che continua su di un altro. Ripetiamolo: la vita non è un prodotto della materia, ma è il motore che aziona il cosmo.
Molti uomini e donne non vogliono pensare alla morte, che temono come la fine di tutto, anche se sono credenti. Eppure quando si confrontano con essa da molto vicino, la loro ottica cambia radicalmente, come nei casi riportati dal Dr. Moody. Quelli che hanno conosciuto uno stato vicino alla morte clinica e hanno fatto l’esperienza straordinaria di pace e di luce, descritta da molti pazienti rianimati in extremis, hanno scoperto, in modo indimenticabile, che la morte si presenta in realtà come una liberatrice che mette fine ad ogni sofferenza, e che schiude una felicità ineffabile, senza comportare nulla di minaccioso e di tragico, come alcune tradizioni religiose si dilettano invece a promettere ai peccatori non pentiti.
Quest’approccio nuovo della morte ha un qualcosa di salutare, da alla vita e alla morte il posto che compete loro nell’ordine della natura: gli scampati sanno che devono vivere per continuare la loro missione sulla terra, impegnandosi al meglio possibile, ma sanno pure che all’ora stabilita la morte verrà nuovamente e questa volta definitivamente, a liberarli dal fardello dell’esistenza. Non hanno più paura della morte e hanno capito che la vita deve servire per amare e per apprendere.
Da circa un secolo e mezzo, la Società Teosofica invita gli uomini a questo approccio filosofico con la vita; non vi è nulla di demoniaco nelle leggi della Natura: tutto vi è organizzato in modo benefico ed armonioso. La morte non capita a caso. Giunge ad un determinato momento per effetto del Karma; non come vendicatrice ma come liberatrice per l’Anima sofferente, mettendo provvisoriamente un termine alla sua prova.
Una profonda comprensione della necessità e dell’utilità della morte, da un senso diverso alla vita dell’uomo, così come una comprensione della vita, in tutta la sua compiutezza, permette un approccio differente alla morte. La morte pone fine alle forme, ma non intacca il testimone interiore cosciente che utilizza queste forme. Così, la morte costringe l’uomo vivente a ricercare questo testimone permanente e ad identificarsi in Lui – per quanto possa farlo – nella sua esistenza di tutti i giorni, attraverso il fluire delle stagioni, dei giorni e delle notti, della vita e della morte.
E’ una delle lezioni essenziali del capitolo XI della “Bhagavad Gita”, dove Krishna mostra al suo discepolo il grande movimento della vita che non risparmia nessuna di queste creature. Davanti a questo spettacolo schiacciante, il Maestro ordina al discepolo di combattere e di partecipare egli stesso all’opera della Natura, compiendo il suo dovere: se lotterà così, confidando nel proprio destino Divino di uomo-Dio, sicuramente egli otterrà la vittoria.
Non c’è dubbio che un giorno la personalità terrena perirà, ma se ha servito la causa dell’Ego Divino Immortale che la anima, avrà compiuto la sua funzione. La causa di quest’Ego Immortale è evidentemente quella dell’uomo nuovo di domani e dell’umanità intera. Non è saggio non pensare alla morte, e nemmeno non fare niente aspettando che arrivi, con il pretesto che è inevitabile. E’ saggio vivere pienamente, senza aggrapparsi alle cose passeggere della vita, ma impiantando nel frattempo le basi di una vita permanentemente al servizio incondizionato della Natura e di tutte le sue creature.
La vita è amica dell’uomo che la adopera al servizio di questa causa. Anche la morte è amica dell’uomo che confida nelle Leggi della Natura, che assicurano la salvaguardia del Pellegrino Immortale, sulla via ascendente del proprio progresso. Come abbiamo già visto, il Karma non punisce, ma aggiusta senza sosta gli errori della nostra traiettoria: ci aiuta così a guarire da noi stessi i mali che contraiamo con la nostra ignoranza. Nella morte, il Karma ci concede liberamente di fare una pausa salutare, di rinfrancarci e riprendere forza: come potrebbe quindi la morte non integrarsi nella nostra visione universale del destino umano?
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