Globalizzazione e Digitalizzazione
di Fiorenzo Fraioli
Da qualche tempo circola inquietudine in merito ad una crescente accelerazione tecnologica, in particolare nel campo digitale, descritta come fonte di pericolo per la democrazia.
Da Alberto Micalizzi (“L’ultimo pugno di dollari: il Fedcoin”) a Paolo Barnard (“Dovete tutti poter capire cosa vi sta arrivando addosso. Blockchain spiegato alla zia”), solo per citare due blogger tra i molti che stanno lanciando l’allarme, l’impressione che si rischia di ricavare da tali scritti è che il motus primus dei cambiamenti in corso, invero straordinari, sia lo sviluppo tecnico, in primo luogo la digitalizzazione, grazie al controllo della quale potentissimi gruppi privati, ultimamente anche statali, stanno ridisegnando i rapporti sociali ed economici.
Questa lettura non è infondata, ma rischia di essere troppo univoca perché pone in ombra il più complesso rapporto tra la politica e lo sviluppo tecnico, contribuendo, magari involontariamente, a rafforzare un’interpretazione che vede la globalizzazione, processo politico per eccellenza, come una conseguenza automatica del progresso tecnico.
Per cominciare, osserviamo che stiamo parlando di “sviluppo tecnico”, e non di uno in particolare come la digitalizzazione. Pertanto, se è possibile discutere la tesi “la globalizzazione è conseguenza dell’attuale stadio dello sviluppo tecnico”, è invece totalmente sbagliato sostenere che “la globalizzazione è conseguenza della digitalizzazione”. Forse che i processi di globalizzazione a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX sono stati causati dalla “digitalizzazione”? E’ vero, invece, che lo stadio delle conoscenze scientifiche e delle competenze tecniche modifica in profondità il “campo di gioco” sul quale si sviluppano le contraddizioni sociali e i confronti geopolitici.
Attenzione, le contraddizioni sociali e gli scontri geopolitici non sono la stessa cosa, nel senso che non è possibile la reductio ad unum di queste polarità, come spesso si fa sia “a destra” (tutto è geopolitica) che “a sinistra” (tutto è lotta di classe). Due esempi:
– La Roma repubblicana si impose sul piano geopolitico, dopo aver trovato un equilibrio di classe interno, grazie alla tecnica militare, che era proprietà di tutti i cittadini, cioè dello Stato.
– I moti rivoluzionari del XIX secolo furono possibili perché lo stadio dello sviluppo tecnologico non consentiva la loro repressione immediata, allorché bastava una barricata per far tremare un trono, sebbene il suo controllo fosse nelle mani di governi autoritari e di classe.
Torniamo alla dialettica globalizzazione-tecnologia, concentrando la nostra attenzione su quella particolare forma di tecnica che è la digitalizzazione, oggi sotto il controllo totale e assoluto delle classi dominanti, sebbene non sia monopolio di un singolo Stato. Questo è lo stato delle cose correnti: la tecnologia digitale è uno strumento che altera in profondità gli equilibri di classe, nel senso di centralizzare in alto il potere di controllo, mentre agisce in senso inverso su quelli geopolitici, perché ogni Stato (più in generale ogni raggruppamento di potere, anche privato) è in grado di gestirla alla pari degli altri.
In questo la tecnologia digitale si distingue da altre che, in passato, hanno fornito a singoli Stati un vantaggio. Non è, per intenderci, come la tecnologia nucleare, o la siderurgia nel XIX-XX secolo, il cui controllo era monopolio degli Stati più forti; oggi anche uno Stato di piccole dimensioni, o un gruppo privato, può giocarsela, su questo terreno, alla pari con l’Impero. Non è così, purtroppo, per i singoli cittadini, ai quali la tecnica digitale ha sottratto potere trasformandoli, con il loro entusiastico consenso per altro, in schiavi la cui vita è controllata in ogni minuscolo aspetto.
Sic stantibus rebus l’idea di una democratizzazione su scala globale, come conseguenza della digitalizzazione, è assolutamente priva di prospettive, e su questo credo ci sia un consenso ormai maggioritario, dopo la sbornia di ottimismo dei decenni passati. E’ altrettanto vero, però, che non solo la digitalizzazione non è la causa dell’attuale globalizzazione, che ha una radice politica e geopolitica, ma addirittura si presta ad essere un freno per questo processo. Nulla può infatti impedire a uno Stato, dotato della capacità di controllare militarmente un territorio, di sviluppare una sua rete digitale, interconnessa con le altre attraverso munitissime dogane digitali che controllino il traffico. Non così per i grandi gruppi privati privi di sovranità militare su un territorio che anzi, avendo interesse ad operare su scala globale, necessitano di un Impero che assicuri l’abolizione delle frontiere reali, e quindi di quelle digitali.
Per esser chiaro e farmi capire anche dalla zia di Barnard, se la Russia vorrà chiudere il suo spazio sovrano alle criptomonete occidentali potrà farlo. Lo stesso vale per l’Unione Europea nei confronti degli Stati Uniti, mentre non sarà possibile a un paese come l’Italia difendersi dalle conseguenze economiche dell’introduzione delle criptomonete, per le quali la stessa UE potrebbe emanare una legislazione favorevole, senza che ci si possa opporre.
In definitiva, allo stadio attuale dello sviluppo della tecnologia digitale, questa agisce come uno strumento che favorisce il processo di formazione di un mondo multipolare ma, al contempo, all’interno di ognuno dei poli, è uno strumento potentissimo di controllo, dunque potenzialmente di oppressione. Il che ci riporta alle ragioni della politica, ovvero alla necessità di delimitare il campo al cui interno è possibile sperare nella possibilità di un controllo democratico della digitalizzazione.
Per noi sovranisti questo campo è quello degli Stati nazionali, così come si sono storicamente costituiti, in quanto caratterizzati da un forte sentimento di identità popolare, l’unico che possa mobilitare la resistenza contro le élites, che hanno invece interesse alla creazione di macro-aree nelle quali questo sentimento sia debole, così da facilitare lo spostamento in alto dei centri di decisione reali.
Nell’ambito dei rapporti sociali di classe, la digitalizzazione è un problema estremamente serio. La vita di ognuno è ormai continuamente tracciata, le videocamere sorvegliano il territorio, dall’alto satelliti militari sono in grado di leggere il codice che digitiamo quando preleviamo dal bancomat; ovviamente ogni transazione finanziaria è tracciata, i nostri conti corrente possono essere posti sotto sequestro in qualsiasi momento, anche senza motivo, semplicemente con una lieve forzatura delle norme già legali, qualora ciò si rendesse necessario per intimorire un oppositore scomodo. A ciò si aggiunga il fatto che chiunque, ripeto chiunque, diventasse davvero scomodo per l’ordine costituito, potrebbe essere falsamente incriminato e condannato senza pietà per qualsiasi crimine inventato, semplicemente ricorrendo a un’operazione coperta dei servizi segreti, per i quali non sarebbe difficile inquinare le prove del DNA.
La digitalizzazione, insomma, si è aggiunta al già vasto armamentario di controllo a disposizione di chi detiene il potere, al punto che è lecito porsi una domanda cruciale: resisteranno, e quanto a lungo, i poteri costituiti, prima di approfittare senza più alcuna remora dell’enorme vantaggio che la tecnologia digitale (soprattutto) ha improvvisamente messo nelle loro mani, prima di farne un uso esplicito? Di più: è possibile che la sola minaccia del controllo assoluto sulle vite dei cittadini, stia già ora esplicando i suoi effetti, inducendo ad un’inconsapevole remissività milioni e milioni di cittadini, ai quali forse non resta altro coraggio se non quello di astenersi dal voto?
In definitiva, la digitalizzazione non è la causa della globalizzazione, come viene fatto credere alle masse di pigiatori di tasto convinti, per ciò, di essere espertoni digitali, ma ne rappresenta un freno, in quanto è una tecnologia accessibile anche a piccole realtà statali che possono dispiegarla efficacemente, a patto di avere il controllo militare delle frontiere territoriali. Per converso, all’interno di ogni realtà statuale, grande o piccola, essa si presta ad essere uno strumento di dominio totalitario. Infine, i grandi interessi che promuovono la globalizzazione spingono per la costruzione di grandi aree di libero scambio orwellianamente controllate dal vertice per mezzo della tecnologia digitale, sognando di unificarle, un giorno, così da realizzare un dispotico “nuovo ordine mondiale”.
L’epicentro della dialettica testè descritta, è il processo di costruzione dell’Unione Europea. Salvaguardare la civiltà significa, oggi, vincere una duplice sfida: far fallire il progetto di costruzione della macroarea liberoscambista europea a conduzione verticistica, recuperando le sovranità nazionali, e farlo su base democratica, così da ricondurre il controllo delle tecnologie digitali sotto il severo controllo di parlamenti democraticamente eletti e di un’opinione pubblica correttamente e pluralmente informata. E’ questo il compito storico del sovranismo.
Articolo di Fiorenzo Fraioli
Fonte: http://egodellarete.blogspot.it/2017/06/globalizzazione-e-digitalizzazione.html
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