Le società del Malessere
di Emanuel Pietrobon
È ancora lecito parlare di società del benessere, considerando i gravi problemi sociali che affliggono perfino i paesi elencati dal World Happiness Report come i più felici del mondo?
Denatalità, diffusione di disturbi psichici e patologie alimentari, dipendenza da psicofarmaci, tassi di suicidi anomali, polarizzazone sociale e spaziale, diseguaglianze di reddito, evidenziano la trasformazione delle società del benessere, in società del malessere.
La società del benessere è, per definizione, il luogo in cui l’essere umano ha davvero la possibilità di realizzarsi, sia interiormente che materialmente: se il lavoro non è appagante, si può cambiare; se lo stipendio non soddisfa, si può provare a fare carriera; nessun prezzo è proibitivo, perché si può chiedere un prestito a un istituto di credito, restituibile in comode rate.
Partendo da questa premessa, la naturale conclusione è che le società del benessere, siano le società del “si può”. In nessun altro luogo, gli individui hanno la possibilità di mobilitarsi per difendere i propri diritti, di partecipare pienamente e attivamente allo svolgimento della vita sociale, economica e politica, ossia, di essere capitani del proprio destino, come avrebbe detto Mandela.
Non è un caso, che il World Happiness Report, una classifica redatta annualmente dalle Nazioni Unite in occasione della Giornata Mondiale della Felicità, mostri le prime posizioni occupate da un gruppo omogeneo e costante di paesi, essenzialmente occidentali, accomunati dal fatto di essere la “culla” della società del benessere.
Il processo di formazione di questo particolare tipo di società, è stato relativamente breve e galvanizzato dall’accresciuta maturazione delle classi politiche e sociali occidentali, avvenuta a partire dal secondo dopoguerra. Il “Piano Marshall”, un esteso programma di aiuti economici elaborato dagli Stati Uniti per ricostruire l’Europa occidentale e il Giappone, per inglobarli nella propria sfera d’influenza, ha svolto un ruolo fondamentale nel superamento del vecchio ordine politico, sociale ed economico.
Infatti, fino alla metà degli anni ’70, in un periodo ribattezzato “I trenta gloriosi”, la regione euro-americana ed il Giappone registrarono straordinari tassi di crescita economica, ed il surplus prodotto fu riutilizzato dai governi, in modo variabile, in investimenti nella sanità, nella scolarizzazione, nella cultura, nell’industria, nella previdenza sociale e nel lavoro.
“I trenta gloriosi” non furono solo gli anni del miracolo economico tedesco, italiano o giapponese, della costruzione degli stati sociali a tendenza universalistica dei paesi scandinavi, o della stabilità dei mercati finanziari regalata dal sistema di Bretton Woods. Nello stesso periodo, velatamente, nei paesi passati sotto l’ombrello statunitense, iniziò un lungo processo di americanizzazione, ancora oggi in corso.
La colonizzazione culturale è il prezzo che l’Europa occidentale e il Giappone hanno pagato per potersi concentrare sulla crescita economica e lo sviluppo sociale. Le grandi potenze del vecchio ordine internazionale si sono trasformate, in maniera consenziente o passiva, in avamposti periferici del mondo libero, annichiliti nei propri aspetti caratterizzanti dalla forza dell’american way of life.
L’importazione del “modello taylorista-fordista” basato sulla produzione di massa, sul gigantismo industriale e sulle grandi economie di scala, unitamente ad una congiuntura economica pluridecennale favorevole agli scambi internazionali e all’universalizzazione della protezione sociale, hanno generato ricchezza non solo per le economie nazionali, ma anche per i lavoratori.
“I trenta gloriosi” sono l’epoca degli aumenti salariali, della nascita della moda di massa, di Elvis Presley, dei drive-in, delle domeniche al mare e del miraggio della crescita illimitata. Negli stessi anni in cui la società del benessere emergeva con forza e l’Europa occidentale, in piena crescita e in quasi piena occupazione, iniziava ad attirare manodopera dal “vicinato mediterraneo”, si manifestarono i primi malesseri, che mostrarono tutta la loro forza a partire dal 1968.
Il 1968 è quindi l’anno della svolta per chiunque voglia indagare a fondo natura, meccanismi e funzionamento della società del benessere, sia perché ha dato i natali ai movimenti di protesta della prima generazione, nata e cresciuta nel secondo dopoguerra, sia perché da quel punto, mentre indicatori economici come il Pil continuano a crescere, indicatori costruiti successivamente per misurare il livello di soddisfazione e felicità come il Bil, il Gpi o il Fil, mostrano una tendenza opposta.
Che cosa includono e calcolano questi indicatori, che il Pil ignora? La qualità dell’ambiente, della vita, la percezione della sicurezza e la criminalità, la solidità delle unità familiari, l’inquinamento, la qualità dei rapporti sociali, l’alimentazione. In effetti, ad uno sguardo neanche tanto approfondito sulle variabili analizzate dagli indici alternativi al Pil, si constata lapalissianamente l’invalidità attuale dell’equiparazione società avanzata=società del benessere, sorta durante “i trenta gloriosi”.
Il modello della famiglia tradizionale è stato dissolto e superato dalla forza dirompente della secolarizzazione dei pensieri e dei costumi sessuali. Il modello familiare naturale, monogamo e patriarcale, peculiare e proprio della civiltà occidentale, combattuto e vinto da radicali, progressisti, ultralaicisti e movimenti femministi, è oggi affiancato dal modello omogenitoriale e da un emergente apertura alla poligamia.
Il crollo delle nascite e dei matrimoni, sia civili che religiosi, non sono conseguenze collaterali del carrierismo e della femminizzazione del lavoro, così come l’aumento dell’infedeltà coniugale, dei divorzi e delle violenze domestiche, non sono segno di un anomalo degrado culturale sorto nel nuovo millennio; si tratta di evidenze sintomatiche del malessere che sta affliggendo il modello familiare occidentale, sempre più instabile e insicuro, incapace di creare progenie e sicurezza relazionale.
Anche il modello alimentare basato su regimi culinari locali e salutari, è stato dissolto dalla “mcdonaldizzazione” della società. La Coca-Cola ha sostituito l’acqua come dissetante, la RedBull ha rimpiazzato la spremuta d’arancia come energizzante, la colazione al fast-food a base di milkshake e hamburger è preferita al classico caffé e cornetto. Non è un caso che le società del benessere ospitino i più elevati numeri al mondo di persone affette da patologie causate dalla cattiva alimentazione, come obesità e diabete.
L’americanizzazione delle abitudini alimentari non solo è causa di malattie, le cui ripercussioni cadono sui sistemi sanitari nazionali, ma in Europa ha anche prodotto un graduale processo di svalorizzazione dei patrimoni culinari autoctoni, componente importante delle identità locali e nazionali.
La vita ha smesso di essere di qualità, sullo sfondo dell’aumento dei crimini violenti, della destrutturazione degli stati sociali, del carovita, dell’inquinamento causato dalla riduzione degli spazi verdi e della crescente motorizzazione, della mercificazione delle relazioni sociali e di una generale desensibilizzazione dell’essere umano, plasmato dall’ideologia dell’appariscenza e da un edonismo sfrenato, causa di disgregazione dell’unità familiare e sociale.
La ricchezza monetaria non si traduce automaticamente in benessere, e questo lo aveva già compreso Georg Simmel, uno dei primi sociologi ad interessarsi al ruolo del denaro nella società capitalistica, secondo cui l’eccessiva importanza data dagli individui al denaro, avrebbe prodotto effetti perversi sulle relazioni sociali e sulla società nel complesso. Nella società del benessere, il denaro ha cessato di essere uno strumento indicativo del grado di emancipazione sociale delle persone, diventando un’ossessione per la quale si vende l’anima sul mercato.
Le stesse retribuzioni lavorative non sono più un riflesso dell’utilità apportata alla società, ma il contrario: non è per nulla populista porre l’accento sulla problematica esistenza di persone come calciatori, attori e personalità dello show business, dai guadagni milionari, a cui il sistema mediatico attribuisce un’importanza ingiustificata, senza chiedersi se sia giusta l’enorme disparità salariale che divide, ad esempio, un infermiere da costoro.
È ancora lecito parlare di società del benessere, alla luce delle contraddizioni che caratterizzano quei paesi, come Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Germania, Stati Uniti, ritenuti dal World Happiness Report, come tra i più felici al mondo? È una domanda a cui ha provato a rispondere anche il giornalista Michael Booth, autore di “The Almost Nearly Perfect People”, indagando sulle reali condizioni in cui versano i paesi scandinavi, incuriosito proprio dal loro costante posizionamento al vertice della classifica.
La Svezia è il paese della parità di genere e dell’integrazione multiculturale, ma anche dei tassi di suicidio e dei crimini sessuali tra i più elevati del mondo, registrando 53,2 stupri ogni 100mila abitanti, seconda solo al Lesotho; mentre Göteborg è la città d’Europa da cui son partiti più foreign fighters per arruolarsi nello Stato Islamico. Il modello delle società perfette danese e islandese, soffre di diffusi problemi legati alla dipendenza da psicofarmaci e all’insorgenza generalizzata di disturbi mentali. In Norvegia si registra il numero di morti per eroina più elevato d’Europa e negli Stati Uniti, ogni anno, circa 30 mila persone muoiono a causa di armi da fuoco; e in entrambi i paesi il tasso di suicidi aumenta con il passare degli anni.
Le società del benessere si sono ormai trasformate nelle società del malessere, e ciascuno è complice di tale scempio nella misura in cui sceglie di comprare un abito costoso solo perché vi è impresso sopra il nome di uno stilista, prediligendo le domeniche ai centri commerciali anziché al parco, preferendo il cibo spazzatura ad una dieta sana, scegliendo un programma trash ad una buona lettura, vedendo nella droga o nel suicidio la soluzione ad un dramma esistenziale, e preferendo un avanzamento di carriera ad una culla piena.
Articolo di Emanuel Pietrobon
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/societa/occidente-societa-del-benessere-malessere
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