Avere… o Essere?
di Teresa Columbano
Il fare, specialmente teso all’avere, nasconde il desiderio “impossibilitato” di essere.
Le realizzazioni esteriori servono solo ad operare una “compensazione”… anche se temporanea. Tutto viene fatto per un unico scopo: vedersi riconosciuto un valore che altri, o noi stessi, non siamo in grado di darci. In questo modo cerchiamo di lenire un dolore “antico” ed incompreso, ma inutilmente. Nessun bene materiale può infatti sostituire la pienezza dell’essere.
Anzi, proprio la presenza di cose fruibili sembra alimentare il “buco” interiore, rendendoci sempre più voraci, famelici e cattivi. Ogni esperienza, anche la più gradevole, ci scivola addosso senza lasciare traccia. Gli oggetti, tanto voluti, nel momento stesso in cui diventano nostri non ci destano più nessun interesse, così come quella certa posizione di prestigio, quel posto di potere, una volta ottenuti non ci bastano più, anzi ci irrita il solo pensare che tanto abbiamo “lottato per così poco….”.
Già, la lotta. L’aggressività del goloso che si ciba con la rabbia, la “distruttività” di colui che tutto consuma, tutto fagocita senza saziarsi mai. Quanto è distante questo uomo “carogna” che divora ogni cosa nel vano tentativo di “possedere” ciò che più gli sfugge (la sua Anima), dall’immagine alchemica dell’uomo portatore di luce e di vita, consapevole del valore divino agente nel suo essere e quindi, nel suo fare.
Il primo passo verso il raggiungimento di questo “stato aureo” è solo un semplice, puro, atto di fede. Al di là di ogni ragionevole dubbio, considerazione o valutazione. Fede, innanzi tutto in noi stessi, nel nostro essere al mondo. Così facendo, accettando la nostra natura umana e divina insieme, saremo in grado allora di diventare (essendolo) un esempio. Formidabile e spietato strumento maieutico, poiché davanti ad un individuo che è riuscito realmente a fare del proprio essere “Opera” e delle proprie azioni “espressione diretta di sé”, non si può che rimanere muti in rispettosa ammirazione. Forse.
In passato è sempre stato così; ogni civiltà ha prodotto una sua cultura, una sua tradizione popolata da miti ma anche da persone “speciali” assurte ad esempio. Eroi impavidi, sovrani giusti, santi ed iniziati, tutti “modelli” di riferimento per il raggiungimento di uno stato “nobile” dell’essere umano.
Ma siamo sicuri che questa “regola” sia valida anche oggi? Oppure al vero miglioramento evolutivo-conoscitivo (foriero di consapevolezza e quindi relativa presa di responsabilità) non preferiamo la comoda (ed annichilente) illusione di uno star bene molto “faustiano”? In parole povere, siamo davvero ben sicuri che molto del mal-essere di questa nostra “civiltà”, avida e vigliacca, non dipenda proprio dall’aver perso ogni vergogna?
Un tempo neppure tanto lontano, sarebbe risultato inammissibile solo il pensare che il valore di un essere umano si potesse riconoscere dall’opulenza della sua dimora, invece che dalla nobiltà del suo animo. Ed ora? Quando crediamo di perseguire una strada di “crescita”, ricercando la nostra declamata (abusando del termine) consapevolezza, con tutta la fatica, la perseveranza e la poca gratificazione che questo comporta, lo facciamo veramente per diventare migliori? O piuttosto per vederci riconosciuto, visibilmente ed immediatamente un nostro supposto merito o valore?
Articolo di Teresa Columbano (Titolo originale: “Vizi o virtù”, Associazione Nuova Terra – Istituto di Bioenergia)
Tratto da: “I sette vizi capitali e le sette virtù” di Luciana Pedirota
Fonte: http://www.illuminazionespirituale.it/vizi-e-virtu/
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