La “Sindrome del Gemello che Resta”
di Caterina Civallero
Sentirsi soli e abbandonati, cercando per tutta la vita di colmare un vuoto interiore, è spesso la conseguenza della “Sindrome del Gemello che Resta”, una condizione che riguarda la maggior parte delle persone, ma di cui pochissimi sono a conoscenza…
Se ne parla ancora poco, ma quando spiego di cosa si tratta, tutti comprendono esattamente di cosa sto parlando. Risuona dentro.
La “Sindrome del Gemello che Resta” è quell’intreccio di sensazioni di vuoto, senso dell’abbandono, insoddisfazione, e continua ricerca, che ci spinge a spostarci di continuo come nomadi alla ricerca dell’acqua, in un “deserto emotivo” senza fine. È quel motore sempre acceso che ronza anche quando c’è silenzio totale, è la sensazione di non essere soli, di non essere mai stati soli, e di non poter mai più essere soli, anche quando siamo soli davvero.
Concepiti secondo un bizzarro disegno di madre natura quasi mai soli, nasciamo quasi sempre figli unici di un utero generoso che ci accoglie e ci conforta, e che nasconde un segreto magico e insospettabile. Nello spazio sacro, nel nostro primo tempio di vita, condividiamo le nostre prime esperienze e ogni forma di apprendimento neurologico, epidermico e percettivo, con un fratello che quasi mai vedrà la luce.
Entro il terzo mese circa di gestazione, infatti, quella stessa madre natura che ci aveva elargito a piene mani la possibilità di vivere non soli, stringe il suo pugno, riduce gli spazi, e sceglie a caso chi resterà unico nascituro, a completare la sua crescita di feto. Di colpo restiamo soli.
All’improvviso qualcosa cambia. Il gioco della vita cambia. Il grande tappeto di stelle del nostro cielo perde una luce, per noi così preziosa da determinare per sempre il desiderio di ritrovarla, e nella penombra del nostro tempio restiamo a pregare soli, fino al giorno in cui vedremo la grande luce della nascita.
Questa esperienza biologica naturale, nel suo manifestarsi, ha impresso in noi un nucleo di reazioni. Alla percezione di questo primo abbandono, memorizziamo un’esperienza che si tradurrà durante la vita nella manifestazione di una reazione istintiva ad ogni forma di abbandono e perdita, che entrerà in risonanza con questo primo modello programmante.
Questo reagire, nella nostra vita, sarà la nostra personale modalità reattiva biologica, la somma divina di un numero incalcolabile di possibilità reattive, composte di sfumature fra le più incredibili, i cui colori partono dalla tonalità della lotta o della fuga. Senza dimenticare che la stessa modalità reattiva agirà nel corpo e nell’anima di nostro fratello nel momento del trapasso; siamo eredi, messaggeri e testimoni di un bagaglio emotivo davvero molto denso.
Dobbiamo ricordare che conteniamo anche la modalità reattiva di nostro fratello, poiché ne abbiamo assorbito ogni tonalità. La nostra vita sarà condizionata per sempre a reagire a quel primo imprinting uterino. Chi saremo nella vita è stato deciso lì, in quello spazio sacro aperto solo a noi, in cui l’unico testimone è stato quel fratello che ci ha fatto compagnia per ore, giorni o settimane.
Da quel momento in poi, ogni nostra scelta si manifesterà per ricreare la magia del vivere insieme a lui, dalla ricerca del compagno, sia esso di giochi o di vita, alla fondazione della coppia o del nucleo di socializzazione familiare e lavorativa. Se ci osserviamo, se ci guardiamo intorno, se frughiamo nel cassetto dei ricordi, troviamo sicuramente l’immagine di una vita spesa alla ricerca del sentirci completi. Ognuno di noi ricrea e reitera un modulo di accoppiamento che nasce con una modalità seduttiva, e un atteggiamento che ci sono tipici. Uno stile unico e personale che guida come un timone ogni storia di amicizia e di vita di coppia, un’impronta che ritroviamo anche nel rapporto con i nostri figli.
Abbiamo bisogno, per sentirci vivi, di ricreare quel senso di comunione primordiale, che quando manca ci dilania fino a farci mancare l’aria. Nella ricerca di creare questo stato di pace interiore, quando passiamo da una relazione all’altra, quando un’amicizia si guasta, quando avviene un distacco, un abbandono, riviviamo l’inferno assordante, o silenzioso, del nostro primo abbandono, quello avvenuto fra noi e nostro fratello. Dalla paralisi emotiva alla violenza estrema, manifestata con la lotta lesionistica anche contro se stessi, parte un viaggio alla ricerca del completarsi, quasi come se madre natura agendo d’anticipo, avesse inventato un modo perpetuo per impedire all’essere umano di restare solo, e per garantirsi che la nostra interazione reciproca mai avrebbe avuto fine.
Sicuramente ognuno di noi ha vissuto questo dolore emotivo intenso e ben definito che è il sentirsi soli e abbandonati, una sensazione che spiegheresti come un senso di soffocamento, di angoscia, di panico, quell’insieme di paure che sia tu sia il fratello morente avete condiviso nel momento della perdita. Vivere un lutto o testimoniare un lutto sono momenti sacri. Nascita e morte punteggiano da sempre la pagina bianca della nostra vita; è in un susseguirsi eterno di momenti vitali, che la natura stessa ci rammenta anche attraverso l’alba e il tramonto, l’inizio e la fine di ogni cosa. È così che avviene l’allenamento della nostra anima. Ogni attimo di vita ci allena al grande incontro.
La “Sindrome del Gemello che Resta”, oggi, è manifestazione feroce di un disagio che viene gestito in una solitudine disarmante. La società frenetica e autistica che ci siamo costruiti, ci allontana dalla possibilità naturale di poterla gestire con naturalezza. Contatti virtuali, famiglie poco numerose, e spesso disgregate, un tessuto sociale spesso inconsistente, ci impedisce di proiettare sull’altro il nostro dolore e ci allontana dalla possibilità di dargli un volto, una consistenza. La sofferenza da “sindrome del gemello che resta” è in aumento. Sempre più persone ne soffrono. Soprattutto i bambini.
Prendere contatto con questo argomento informa e dà forma. Offre una possibilità di intervento. La conoscenza della questione, conduce alla presa di coscienza e la presa di coscienza conduce alla possibilità di autoguarirsi, facendo dell’esperienza stessa la medicina per la nostra crescita evolutiva.
Articolo di Caterina Civallero
Fonte: https://anima.tv/blog/2017/la-sindrome-del-gemello-che-resta/
Io invece la mia gemella l’ho persa poco prima di venire al mondo e l’ho sempre saputo e mi ha segnato per sempre anche perchè poi sono stata rifiutata da mia madre che inconsciamente mi riteneva responsabile della sua morte e non mi ha amata. Poi per liberarsi definitivamente di me mi ha regalata alla sorella che non aveva avuto figli (sua gemella).
Ciao a tutti!
Io sin da quando andavo all’asilo dicevo a mia madre ,che volevo una bimba proprio uguale a me .e da allora ho continuato a dirlo fino ai miei 8 anni,fin quando mia nonna un giorno mentre eravamo soli e per l’ennesima volta gli ho detto che desideravo essere gemella mi prese la mano e mi dissi sai …veramente tu lo eri…iniziai a piangere ero arrabbiata con mia madre perché lei nn me lo disse.poi parlando mi tranquillizzò ..Io nn ho smesso mai di pensare alla mia gemella,lei se ne andò al 4-5 mese.dopo anni mia madre mi spiegò che era un ricordo che aveva rimosso perché gli faceva molto male ,per questo quando gli dicevo che volevo essere gemella evitava..A me manca tanto da mancare il fiato .ho 26 anni e quel dolore nn mi ha mai abbandonata.quella mancanza .quel vuoto perenne che non si può spiegare. L’unico modo per consolarmi io stessa leggermente e pensare che lei è parte di me ,che vive con me dentro di me.anche se fa male perché nn riesco ad accettare quel vuoto…