Che cosa dobbiamo farne dei morti? Strategie di confronto con il grande tabù
di Ilaria Bergamaschi
Nella società contemporanea ci si è assuefatti a un sistematico occultamento sociale della sofferenza e della morte. Si è perso il “momento del cordoglio”, arrivando a farsi vanto di averlo progressivamente ridotto a un puro fatto individuale, lasciando decadere quel supporto collettivo che è, invece, indispensabile per venire a patti con un evento che difficilmente si può fronteggiare da soli.
A noi occidentali del XXI secolo l’etimologia di tutto il lessico legato al “pianto” sembra rivelare qualcosa di oscuro e inafferrabile; il verbo latino plango – da cui esso deriva – aveva, infatti, il significato originario di “battere”, “colpire” e poteva riferirsi al gesto di far risuonare uno strumento a percussione come anche al tipico rumore prodotto da un panno svolazzante scosso dal vento, al vigoroso agitarsi delle ali degli uccelli o ancora allo scrosciare delle onde che si frangono sugli scogli.
In un secondo tempo, il termine (insieme ai sostantivi corradicali plangor e planctus) ha assunto il valore di “piangere”, “gemere”, per poi restringersi ulteriormente all’atto specifico di “percuotersi” le anche o la testa o il petto, ossia a una delle tante espressioni codificate del dolore funebre, inerenti la tradizione millenaria della “lamentazione rituale”. La storia di queste parole sembra insomma contraddire il pensiero comune che, al contrario, è portato a riconoscere nel “versamento delle lacrime” la più spontanea e personale manifestazione emotiva di cui l’essere umano sia capace.
In realtà, nulla è più illusorio! Non esiste emozione che non implichi un rapporto dinamico con la cultura che la promuove o la censura, non si ha espressione emozionale alcuna che non risponda a una serie di rigorose convenzioni, che non sia il prodotto di determinate concezioni in merito al corpo, all’anima, alla vita tutta; e, se questo vale per i molteplici ambiti nei quali quotidianamente si declina l’esistenza di ogni uomo, a maggior ragione dovrebbe valere nel momento che più di ogni altro chiama ciascuno a confrontarsi con le verità ultime del suo stare al mondo.
Ciononostante, nella società contemporanea, modernissima e sempre più tecnologizzata, ci si è assuefatti ad un’estrema medicalizzazione della morte (e della malattia che la precede) e a un sistematico occultamento sociale della sofferenza, nell’illusoria e fuorviante convinzione di riuscire così a esorcizzare ciò che in realtà diventa sempre più indicibile, e che ci si ostina a marginalizzare in goffi e inconcludenti tentativi di rimozione.
Ma, cosa forse ancor più pericolosa, si è a tal punto persa la percezione della complessità dei componenti in cui dovrebbe esplicarsi il momento del cordoglio, che si è arrivati a farsi vanto di averlo progressivamente ridotto a un fatto psicologico individuale e del tutto privato, di averne eliminato quasi ogni segno esteriore, in nome di una rigorosa aspettativa di pubblico autocontrollo e di decoro, mascherando con il falso mito della riservatezza e del rispetto della privacy, l’incapacità di riempire il vuoto lasciato dal decadere di quel supporto collettivo che è, invece, indispensabile per venire a patti con un evento che nessuno può credere di fronteggiare da solo.
E gli antichi? Come noi, essi non furono immuni dal provare angoscia di fronte alla prospettiva annichilente della morte e della sua ineluttabilità; come noi, non poterono sottrarsi al bisogno di elaborare strategie capaci almeno in parte di arginare la prepotenza di quel pensiero.
Le risposte che provarono a darsi furono le più diverse a seconda dell’epoca in cui vissero, della loro estrazione sociale e degli ambienti che frequentarono, degli studi compiuti e della sensibilità propria di ognuno. Così, accanto alle “cieche speranze” che il “Prometeo” di Eschilo donò agli uomini permettendo loro di distogliere lo sguardo dall’inevitabile comune destino e di poter progettare una vita altrimenti impensabile, seppur a costo di un parziale offuscamento della loro consapevolezza, troviamo le sconcertanti e consolatorie affermazioni di Epicuro (riprese poi nel mondo romano da Lucrezio), secondo cui l’anima composta di materia si sarebbe semplicemente dissolta e disgregata al momento del decesso che, dunque, non si sarebbe più dovuto temere.
Personaggi come Catullo e Orazio, dal canto loro, preferirono risolvere la questione inneggiando il più possibile alla condizione umana, delle cui gioie invitarono a godere a pieno, mentre la speculazione filosofica di intellettuali come Platone o Seneca andò, invece, nella direzione di una più matura presa di coscienza della costitutiva finitezza della stirpe dei mortali, nell’ottica di un costante e quotidiano esercitarsi ad affrontare nel modo più lucido e sereno la propria fine.
Ciò che, tuttavia, accomunò tutti loro distanziandoli abissalmente da noi, fu l’aver mantenuto la certezza che la reazione all’evento destabilizzante della morte, che giungeva a minare l’equilibrio della comunità, non potesse esaurirsi nell’esplodere dello strazio del singolo, ma che quello strazio andasse sapientemente incanalato e rielaborato in una precisa sequenza di funzioni e liturgie, che proprio in una specifica tecnica del pianto, ufficiale e istituzionale, trovava la sua più irrinunciabile ed efficace concretizzazione.
Un vero e proprio “saper piangere”, la cui teatralità consentiva di dare sfogo alla crisi in forme controllate e modalità accettabili, arginandone così le potenziali derive di follia e disperazione. La monotona e prevedibile ripetitività di questo saper piangere, concorreva a stemperare la pungente violenza del trauma, in un calcolato susseguirsi di improvvisazioni e rigidi automatismi, la cui partecipazione corale diveniva una forma essenziale di condivisione del tormento e di rinnovata celebrazione dei valori fondativi del gruppo, che lo strappo della perdita rischiava in qualche modo di compromettere.
Allora non sorprenderà più scoprire che alle origini della parola “lutto” sta il verbo latino lugere (ovviamente “piangere”) che i linguisti riconducono ad un’antica radice indoeuropea leug- dal significato ormai familiare di “battere”, “colpire” legato all’immancabile ruolo da sempre rivestito dagli strumenti a percussione nell’ambito delle cerimonie in onore dei defunti, a ulteriore riprova del fatto che, a differenza di un genere di contrizione inattiva e rassegnata (come quella espressa da un altro termine latino qual era maeror), il tempo del lutto si configurava come un tempo di vero e proprio lavoro produttivo, di reazione attiva, di autentica ricostruzione.
Come non sorprenderà scoprire che il canonico dispiegarsi del lamento, prevedeva il canto o la recitazione di brevi versi privi di metro e di rima, pronunciati sulla base di una linea melodica assolutamente fissa; che a questo si accompagnava una mimica altrettanto disciplinata che imponeva di colpirsi varie parti del corpo con una o due mani, di oscillare ritmicamente il busto, di strapparsi o tagliarsi i capelli. Oltre a ciò, si alternavano periodicamente gli interventi di un coro.
Gli attori di questa drammatizzazione erano forniti di un corposo bagaglio di conoscenze mnemoniche costituite da moduli e ritornelli formulari, che andavano a costituire l’ossatura di ogni lamento. Tutte queste figure erano di preferenza donne, indistintamente selezionate nella cerchia delle parenti più prossime al trapassato, ma anche tra professioniste prezzolate, senza che questo inficiasse minimamente la verità di ciò chi si andava compiendo.
Al grande Ernesto De Martino e ai suoi studi – imprescindibili per chi si occupi di questi temi – spetta il merito di aver lungamente e approfonditamente indagato le sopravvivenze di queste antiche tradizioni nel folklore delle zone rurali e periferiche di tutta l’area euro-mediterranea (dall’italica Lucania alla Romania, dal Caucaso alla Sardegna), rintracciandovi il profondo legame con le pratiche che avevano accomunato la storia di tutte le grandi civiltà, sorte un tempo intorno al nostro mare (dall’Egitto ai regni della Mesopotamia, dalla Grecia a Roma, senza dimenticare Israele) e allo stesso tempo riconoscendone l’inevitabile svuotarsi di senso, in un orizzonte culturale profondamente trasformato come quello della seconda metà del XX secolo, dominato da un capitalismo imperante e dalla corsa all’industrializzazione, e incapace a sua volta di dare risposta ai più profondi interrogativi dell’uomo, quelli eterni che lo accompagnavano da sempre e quelli nuovi, che proprio la sfrenata corsa al progresso stava iniziando a suscitare.
A noi il dovere di superare scetticismi e diffidenze, e di provare a scorgere dentro quei riti che istintivamente si è tentati di giudicare retrogradi e primitivi, l’enorme pregio di aver tenuto ancorati quanti li officiavano alla necessità di riconoscere nella morte una parte integrante della vita, e di comprendere che quanto veniva inscenato anche nelle campagne del nostro Sud Italia era, invece, una preziosissima lezione di vita, che i popoli del passato avevano perfettamente appreso e che noi moderni dovremmo assolutamente recuperare.
Articolo di Ilaria Bergamaschi
Fonte: https://wsimag.com/it/cultura/31926-che-cosa-dobbiamo-fare-dei-morti
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