Oltre il Credere e il Non Credere
di Paolo D’Arpini
Il saggio non vede differenza tra materia e spirito. Egli “conosce” che la coscienza e l’esistenza sono inscindibili nell’assoluta unità.
Il linguaggio non è solo semantica. Eppure c’è già all’interno della mente un “seme” che consente la comprensione di concetti sottili, che non hanno corrispondenza nel mondo materiale. Ad esempio, quando un bambino apprende a parlare ed a scrivere, non segue solo esempi concreti: tavolo, cibo, cane, etc. Vi sono pure i concetti e sentimenti che vengono “riconosciuti” intuitivamente, per una sorta di ammissione interna che va aldilà dell’esempio. In questo caso, si presuppone che vi sia già una pre-conoscenza innata di tali concetti, il linguaggio, insomma, non è altro che descrizione di un qualcosa che abbiamo già dentro. La stessa cosa si può dire della conoscenza di vita.
La vita nasce dall’inorganico, ma se non fosse già presente nella materia in forma germinale, come potrebbe sorgere e trasformarsi in intelligenza e coscienza? Da ciò se ne deduce che la coscienza e l’intelligenza sono come una “fragranza” della materia e quindi non vi è reale separazione. La differenza è solo nella fase…
La vita è un’espressione manifestativa della materia. Partendo da questa considerazione generale, osserviamo che la spinta evolutiva di questa intelligenza/vita si evolve attraverso stati diversi di consapevolezza. Nelle forme pensiero esistono gradi descrittivi della maturità assunta da questa intelligenza. Tralasciamo per il momento gli aspetti più vicini all’animalità, all’istinto, e prendiamo in considerazione solo gli aspetti “filosofici” del pensiero umano. Osserviamo che sia in occidente che in oriente vengono descritti gli aspetti separativi e unificativi del processo mentale (solve et coagula).
In Grecia come in India si è parlato di pensiero duale e pensiero non-duale. Nel pensiero duale (dvaita) viene inserita ogni forma cristallizzata separativa, come il teismo e l’ateismo. Queste due categorie infatti sono viste come sfaccettature della stessa conformazione separativa. Il teista è colui che crede in un dio separato da sé, lo immagina in veste di essere superiore e dotato di immensi poteri e vede se stesso come creatura alla sua mercé. Il teista crede che la sua propria esistenza sia consequenziale e secondaria al dio.
L’ateo parimenti, crede di non credere, ovvero nega ogni sostanza all’ipotetico dio, basando il suo credo sul relativismo materialista. Il teista e l’ateo sono arroganti affermativi della propria “verità” (presunta od immaginata). Ovviamente, entrambe queste fedi si basano sulla piccolezza e separatezza dell’io ed abbisognano di uno sforzo continuo e costante per affermare o negare, un tentativo frustrante che comunque non prende in considerazione l’agente primo, l’io, se non in forma passiva e marginale.
Questo modo di pensare duale, è lo stesso sia per il religioso che per l’ateo materialista, che crede in causa-effetto o nella fortuità del caso. È un percorso puramente speculativo, basato comunque sul credere, sul ritenersi piccoli elementi separati di un qualcosa che magari pian piano la scienza (o la religione) corroborerà. Ma sappiamo che l’orizzonte è sempre più avanti… mai raggiungibile, insomma siamo persi nel nulla…. Nel vuoto.
La fase successiva dell’auto-conoscenza si definisce non-duale (advaita), in questo caso si inizia a tener conto del soggetto, della coscienza attraverso la quale ogni percezione e sentimento sono possibili, si riconosce nella consapevolezza la matrice della propria esistenza. In questa categoria si pongono l’agnostico e lo gnostico.
Alla base della ricerca dell’agnostico si pone l’esperienza diretta ed il superamento della concettualizzazione descrittiva. L’esperienza empirica viene portata alle sue estreme conseguenze con il riconoscimento della costante presenza dell’io nel processo implicato. Viene superato così il modello del credere in verità precostituite, accettando la realtà intrinseca dello sperimentatore che esperimenta.
L’agnostico sa che non può esserci altra certezza che quella dello sperimentatore, ma allo stesso tempo non vi è ancora realizzazione definitiva. La coscienza individuale non si è fusa nella coscienza universale, benché permanga l’intuizione dell’unità primigenia del tutto. Stando così le cose, egli non può affermare, egli dice di non sapere, la sua è una saggezza in fieri, in maturazione. L’agnostico non può più identificarsi con un nome forma specifico ed allo stesso tempo manca della pienezza e quindi resta in silenzio, non afferma e non nega. Ma il suo costante e continuo discernimento giunge infine ad una inaspettata e spontanea fioritura, e qui l’intelligenza individuale si scioglie, si ottiene la conoscenza di sé, la gnosi (jnana).
Lo gnostico non ha assolutamente bisogno di affermare alcunché, la sua realizzazione è totale e definitiva, la sua presenza non è limitata ad un nome forma, egli conosce se stesso come il tutto inscindibile dal quale ognuno di noi proviene e risiede. Lo gnostico, né sente il bisogno né ha mezzi per esprimere la sua esperienza, giacché il linguaggio umano è molto distante dall’esperienza diretta del sé. Infatti, prima c’è la consapevolezza del sé, poi la coscienza dell’io individuale che assume una forma nello specchio della mente, quindi la riflessione del pensiero ed infine la descrizione del linguaggio parlato o scritto.
Il saggio non vede differenza alcuna, sa che la base è la stessa per ognuno (materia-spirito in continua trasformazione), egli “conosce” che la coscienza e l’esistenza sono inscindibili nell’assoluta unità (uno senza due) e resta in silenzio. Ma la sua esperienza – che è la comune natura di tutti – può essere riconosciuta e percepita per spontanea simpatia dallo spirito maturo.
In questo processo a quattro fasi, fra dualismo e non-dualismo, si manifesta tutto il gioco della vita e della coscienza.
Articolo di Paolo D’Arpini
Fonte: https://www.spiritual.it/it/cultura/oltre-il-credere-e-il-non-credere,3,109247
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