Cronache della Pandemenza – Deliri… Inclusivi
di Piero Cammerinesi
La guerra dei sessi procede trionfante.
Dopo millenni di patriarcato ci provarono le femministe nel ’68 a riconquistare un po’ del terreno perduto. Fu una breve stagione, fatta di comuni hippie, erba, minigonne e amore libero, musica e stordimento, internazionale comunista, ma anche di ricerca interiore e pacifismo generalizzato – fate l’amore, non la guerra – stagione ben presto rimpiazzata dalla corsa all’impiego ed alla carriera.
Così, dopo due o tre passi avanti, le donne scivolarono di nuovo indietro, come in un perverso gioco dell’oca, dato che le società umane hanno la pessima abitudine di applicare la legge del più forte, che nella maggior parte dei casi è il meno sensibile ed il più rozzo.
Ma ecco che, dopo più di mezzo secolo dal ’68, è sorto un nuovo “sol dell’avvenir” – questa volta proveniente non dall’Oriente socialista ma dall’Estremo Occidente – che ha pensato bene di spazzar via senza riguardi una cultura millenaria gettando via – è il caso di dirlo – il bambino con l’acqua sporca. Nel senso che, con l’ideologia di genere, per magia non esiste più maschile o femminile ma solo la personale percezione della propria sessualità.
E dato che maschi o femmine biologicamente definiti sono ormai obsoleti, anche il linguaggio deve seguire questa nuova dottrina, Rivelazione ufficiale della Rivoluzione Culturale 2.0 che dilaga senza argini nel cosiddetto Occidente democratico.
Sì, perché ai tempi del ’68 e dintorni c’era ancora la possibilità del dissenso – della non omologazione – ed erano in molti a contestare le contestatrici, vale a dire le femministe che volevano ottenere dei diritti – quelli certamente sacrosanti – all’interno del tessuto sociale, mentre oggi non si può più – pensateci bene – non si può più dissentire, se no si è fascisti, misogini, patriarchi.
Dunque il linguaggio, dicevo. Passando dal genere naturale al genere grammaticale, abbiamo iniziato ad usare gli asterischi per evitare il maschile o il femminile per aggettivi, sostantivi, pronomi senza – ecco la parolina magica – inclusività nei confronti di chi non si riconosce in uno dei due generi, per passare poi alla “schwa” , il cui simbolo fonetico è [ə] che dovrebbe andare a rimpiazzare gli asterischi o la chiocciola.
A poco serve far notare che la [ə] è una vocale che non esiste nel sistema fonologico della lingua italiana, trovandosi a metà tra una [a] e una [e]; le coribanti del gender non se ne crucciano. Siano asterischi o schwa, comunque mai più termini maschili o femminili che non sono inclusivi di chi si percepisce di genere diverso. Ma sopratutto via il genere maschile, emblema del concetto più odiato al tempo nostro: il patriarcato.
Ma ecco che, con un ulteriore innalzamento dell’asticella, oggi abbiamo una nuova perla: il “femminile sovraesteso”. Non sapete di che si tratta? Ve lo dico subito.
Per femminile sovraesteso si intende un approccio linguistico che usa la forma femminile come predefinita, sia parlando del genere maschile o femminile, che di persone di genere non indicato, approccio che sino ad ora è stato fatto usando la forma al maschile. Si tratta evidentemente di un progetto linguistico più inclusivo che vuole combattere la “discriminazione di genere” che coinvolge evidentemente anche il linguaggio.
Non bastava il neutro, il liquido, l’indefinito, l’ “io-sono-quel-che-mi-pare” oggi si va ancora oltre; siamo tutti al femminile. Per giusta vendetta contro il maschile, il patriarcato etc etc. Il femminile sovrasteso risolve il problema alla radice. Mettiamo tutto al femminile.
La brillante idea viene dal Rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian, che da oggi si fa chiamare “rettrice”. Finalmente il sogno di Laura Boldrini e di tutta l’accolita di menadi in delirio al seguito pare realizzarsi, mediante un cambio di genere senza cambio di sesso.
Geniale, no? Vale a dire che nel nuovo Regolamento di Ateneo di quasi 50 pagine, che verrà, dopo l’approvazione finale, pubblicato sul sito dell’università di Trento, i termini usati, sia per gli uomini che per le donne, saranno sempre al femminile.
Non più il presidente, ma la presidente, non più il rettore ma la rettrice, la professoressa, la candidata etc. maschi o femmine che siano. Il femminile sovraesteso viene dichiarato – precisa l’ateneo – nel documento con un articolo apposito (Titolo 1, art.1, comma 5) che specifica: I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone.
Ma apprendiamo dalle parole del rettore oops… della rettrice, sino a dove si spinge il delirio sovraesteso: nella stesura del nuovo Regolamento, abbiamo notato che accordarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso avrebbe appesantito molto tutto il documento. In vari passaggi infatti si sarebbe dovuto specificare i termini sia al femminile, sia al maschile. Così, per rendere tutto più fluido e per facilitare la fase di confronto interno, i nostri uffici amministrativi hanno deciso di lavorare a una bozza declinata su un unico genere. Hanno scelto quello femminile, anche per mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione.
Come dice, signora rettrice? Se ho ben capito, per non appesantire il documento accordandosi alle linee guida sul linguaggio rispettoso, si sono messi tutti i termini al femminile? (questa inclusività che teme di non includere tutti i generi, evidentemente però ama esclude il maschile… gli uomini sono sacrificabili… tutti patriarchi! – nota di conoscenzealconfine)
Ma sentiamo come continua il nostro, anzi, la nostra: leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni.
Ecco, ora capisco, leggendo il documento c’è stata l’illuminazione sulla via di Damasco, perché il nostro Flavio Deflorian si è sentito escluso come uomo e ha percepito quello che – secondo lui – provano le donne quando leggono i nomi maschili. Così ha voluto rimediare con questo gioiello lessicale per promuovere la parità di genere all’interno dell’ambiente accademico.
Encomiabile davvero. E che cosa ne pensano – chiederete voi – gli altri membri della direzione dell’Ateneo trentino? Ma su, siamo seri, ancora pensate che vi sia qualcuno che dissente dal pensiero unico, l’ideologia woke?
Naturalmente – come si è affrettata a dichiarare la rettrice – la proposta è stata accolta all’unanimità senza alcuna obiezione.
Così Trento, dopo essere tornata quest’anno al vertice della classifica delle città più ecologiche d’Italia – ma anche più disseminate di telecamere e microfoni in puro stile cinese – ora ha anche il primato di città più al femminile.
Ma vedrete che – essendo la pandemenza contagiosa – l’iniziativa dell’Ateneo trentino verrà ben presto copiata da altre realtà culturali e sociali, ansiose di primeggiare in inclusività.
Articolo di Piero Cammerinesi
Fonte: https://www.liberopensare.com/cronache-della-pandemenza-deliri-inclusivi/
Quanto mi manca il vero femminismo del 68 🙁