L’Illusione dell’Intelligenza Artificiale: Bolla Speculativa o Futuro Inesistente?
di Carmen Tortora
L’industria dell’IA non è solo sull’orlo del collasso; sta gonfiando attivamente una bolla speculativa che ricorda sinistramente quella delle dot-com. Ma questa volta, l’euforia non riguarda il potenziale di internet, bensì una tecnologia che promette miracoli e invece consegna poco di concreto.
Le aziende, ipnotizzate dal luccichio del futuro digitale, si stanno lanciando a capofitto verso la bancarotta, lasciando dietro di sé una scia di investitori traditi e sogni infranti.
L’intelligenza artificiale, decantata come l’inizio di una nuova era per l’umanità, si sta rivelando poco più di un’illusione, un miraggio alimentato da parole vuote, azioni gonfiate e una campagna mediatica senza fondamenta solide. Pensare che l’IA possa in qualche modo replicare l’umanità è non solo ottimistico, ma fondamentalmente assurdo. Perché? Perché l’IA non ha nulla di ciò che ci rende umani: non ha anima, non ha spirito, e certamente non ha coscienza.
Chiamare questa tecnologia “intelligente” è una distorsione del termine. Siamo vittime della truffa più sofisticata del secolo, dove l’olio di serpente non si vende più sui banchi del mercato, ma viene spacciato in forma digitale, diffuso su scala globale con la promessa di risolvere problemi che, in realtà, finirà solo per amplificare.
Ma cosa stiamo realmente osservando? Niente di più che un’elaborazione avanzata di dati, travestita con il fascino del termine “intelligenza artificiale”. Non c’è creatività, non c’è vera comprensione. Ci sono solo algoritmi che digeriscono enormi quantità di dati – spesso raccolti senza il nostro consenso – e sfornano risultati che imitano il processo decisionale umano.
Questa non è intelligenza, è una mera imitazione. I sistemi che generano testi, arte o musica non creano nulla di originale. Riconoscono schemi preesistenti, molti dei quali rubati o presi senza permesso, e li rigurgitano sotto forma di “creazioni” che sono tutto tranne che innovative.
Il termine “intelligenza artificiale” evoca l’immagine di una mente pensante e razionale, ma la realtà è ben diversa. Questi algoritmi non capiscono niente. Non c’è empatia, non c’è ragionamento, non c’è consapevolezza. Quando un’IA vince una partita di scacchi o di Go, non è perché comprende lo spirito del gioco, ma perché ha processato milioni di partite e calcolato la mossa ottimale. Chiamare questo “intelligenza” è semplicemente un inganno. Quello che vediamo non è altro che una previsione statistica, non una vera comprensione.
Il tamburellare incessante dei media sull’era dell’intelligenza artificiale si è ormai trasformato in una cacofonia: un’overdose di pubblicità gonfiata. Ogni volta che si pronuncia la sigla “IA”, ci vengono presentate immagini estreme: da un lato, un’utopia in cui le macchine risolvono tutti i problemi umani; dall’altro, una distopia in cui l’umanità diventa una mera comparsa. Ma se ci fermiamo un attimo a osservare, questo idolo tecnologico, a cui ci viene chiesto di inginocchiarci, sembra sempre più vuoto. Un idolo che, a ben guardare, sfiora quasi il ridicolo nelle sue grandiose promesse non mantenute.
L’IA, come ci viene venduta dagli araldi di Davos e dalle élite auto-incoronate, è descritta come il profeta della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. Un termine altisonante, che promette trasformazioni epocali e un salto evolutivo per l’umanità. Ma, sorge spontanea una domanda: dove sono questi cambiamenti rivoluzionari? Dove sono le rivoluzioni scientifiche e sociali che ci erano state promesse con tanto clamore?
La verità è che questa “rivoluzione” è poco più di una gigantesca operazione di marketing, orchestrata con precisione e finanziata da chi ha tutto l’interesse a mantenere la macchina propagandistica ben oliata. Non stiamo assistendo a una trasformazione reale del tessuto sociale o economico, ma a un continuo spostamento delle aspettative. I pali della porta vengono mossi così spesso da far sembrare ogni piccolo progresso dell’IA come qualcosa di rivoluzionario. Innovazione? No, è un’illusione ben confezionata, studiata per far scorrere denaro e tenere il pubblico a bocca aperta, in adorazione di un futuro che, in realtà, non arriverà mai.
Prendiamo personaggi come Yuval Harari, che parla dell’IA con la solennità di un sacerdote di fronte al suo altare. Tuttavia, quando lo si incalza, piega la sua narrativa a seconda delle esigenze. Harari ci dice che l’IA non ha bisogno di essere senziente, quasi come se l’essenza di una divinità non risiedesse nella sua coscienza, ma nella sua capacità di calcolo.
Ed è qui che si svela l’ironia: da un lato, l’IA viene presentata come il nuovo dio onnipotente del nostro ordine mondiale, dall’altro, questo “dio” è privo delle qualità fondamentali che dovrebbero giustificare il suo potere. Una divinità senza coscienza, che non guida l’umanità verso un futuro migliore, ma che ci imprigiona in una rete di illusioni digitali, perfettamente orchestrata da chi controlla i fili dietro le quinte.
L’IA di Harari è un “dio della convenienza”: potente, certo, ma privo di quelle qualità essenziali che definiscono la vera intelligenza e la vita stessa. Non siamo di fronte all’alba di una nuova specie, come vorrebbero farci credere, ma solo a un riciclo di vecchi algoritmi, riproposti e venduti come se fossero l’evoluzione divina. La famosa “singolarità” di cui tanto si parla? Un miraggio. Dove sono le prove tangibili di questo presunto salto epocale? Nei veicoli autonomi che si bloccano alla prima pioggia? Nei robot dei servizi clienti che ti fanno rimpiangere i vecchi operatori telefonici?
I cosiddetti “progressi” che vediamo sono, nella migliore delle ipotesi, incrementali, ben lontani da quegli sviluppi rivoluzionari che ci avevano fatto intravedere. Quello che ci viene realmente offerto non è l’emergere di una nuova intelligenza superiore, ma una dipendenza ingegnerizzata. L’IA, così come ci viene spacciata oggi, non è una forza autonoma di pensiero o innovazione, ma una mera eco dei nostri input, priva di qualsiasi scintilla creativa o vera comprensione. Non è il futuro che ci hanno promesso, ma un trucco ben orchestrato per mantenerci agganciati a un’illusione di progresso.
Ed è proprio in questo gioco di specchi che i globalisti trovano terreno fertile per il loro dominio. Convincendo le masse che l’IA è infallibile, stanno creando una realtà in cui gli algoritmi non sono più semplici strumenti, ma nuovi legislatori invisibili, che dettano regole e decisioni. Non ci stanno conducendo verso l’illuminazione o un futuro migliore, ma verso una sofisticata forma di dipendenza, mascherata da progresso.
Il vero inganno? L’IA non attira per quello che è, ma per ciò che promette: una vita priva del peso delle decisioni e dell’impegno mentale. È il trucco perfetto orchestrato dai globalisti: vendere la libertà dalla responsabilità come il massimo del lusso. Ma a quale costo? La nostra autonomia. La nostra capacità di pensare, agire e decidere liberamente. Un vero patto faustiano: cediamo il nostro potere decisionale in cambio della comodità, solo per ritrovarci sottomessi a un sistema che sostiene di sapere meglio di noi cosa è giusto.
E le applicazioni pratiche di questa “miracolosa” IA? Dove sono?Ci avevano promesso una rivoluzione nell’assistenza sanitaria, eppure vediamo l’aspettativa di vita diminuire, non aumentare. Questo non è un segno di successo, ma di fallimento. Se l’IA fosse davvero la panacea che ci dicono, non dovremmo vedere una popolazione che arranca, ma una che prospera.
La “rinascita” tecnologica promessa dal WEF e simili non è affatto una rinascita. È una regressione. Stiamo esternalizzando la nostra creatività, delegandola a macchine che possono solo imitare, ma mai innovare. Il futuro che ci vendono non è un mondo di progresso, ma una trappola in cui la nostra umanità viene ridotta a una funzione di un codice.
Il cambiamento nella narrazione sull’IA, che da successore senziente dell’umanità si è trasformata in un semplice ingranaggio della digitalizzazione totale, è una chiara ammissione di fallimento da parte delle élite: la loro divinità digitale non si “risveglierà” mai. E così, cambiano strategia. Se l’IA non può condurci verso una nuova alba, allora sarà utilizzata per intrappolarci in un eterno presente, dove ogni aspetto della nostra vita è filtrato e mediato da algoritmi. Non si tratta di migliorare le capacità umane, ma di imprigionare l’esistenza in una rete digitale, dove la dipendenza diventa la nuova normalità.
Quello che stanno costruendo non è l’emancipazione della società attraverso la tecnologia, ma un mondo in cui pensare, decidere ed esistere viene delegato alla macchina. E questo non è un semplice effetto collaterale dell’integrazione dell’IA nelle nostre vite; è l’obiettivo finale. In questo schema, l’IA non ha bisogno di essere intelligente, ma solo di diventare indispensabile. E qui risiede il vero pericolo: non nelle macchine che diventano come noi, ma in noi che diventiamo come loro – prevedibili, programmabili, eternamente vincolati ai codici scritti da qualcun altro.
L’istruzione superiore, un tempo faro dell’intelletto e della conoscenza critica, si è trasformata in una catena di montaggio della mediocrità. I laureati di oggi escono dalle università con diplomi scintillanti, ma sono spogliati delle competenze necessarie per navigare nel mondo reale. Perché? Perché il sistema educativo è stato ridotto a un eco di ideologie sterili, dove i programmi sono impoveriti e gestiti da professori più interessati a propagare agende politiche che a coltivare menti pensanti.
Riflettiamo un attimo: abbiamo una generazione che sa destreggiarsi tra app e social media, ma non ha idea di come cucinare un uovo o coltivare un pomodoro. Questi giovani adulti – o forse sarebbe meglio chiamarli “eterni adolescenti”? – hanno esternalizzato tutte le loro capacità di sopravvivenza alla tecnologia. Dall’agricoltura ai rapporti umani, tutto è ormai mediato da schermi e algoritmi. Questa è evoluzione? O stiamo assistendo a una lenta e deliberata atrofia delle capacità umane, nascosta dietro la patina dorata del “progresso”?
E smascheriamo finalmente la favola dell’IA come il precursore di un futuro utopico. L’intelligenza artificiale, celebrata come il culmine della saggezza collettiva, non è altro che una camera di risonanza programmata per riflettere solo ciò che i suoi creatori vogliono farci vedere. Ecco il vero pericolo: in un mondo dove l’IA diventa la fonte primaria di “conoscenza”, la diversità di pensiero non viene solo limitata, ma sistematicamente sradicata.
Immaginate un mondo dove ogni domanda che ponete riceve sempre la stessa risposta, impeccabilmente politicamente corretta e plasmata da chi controlla il codice. Questa non è solo una perdita di libertà personale; è la programmazione di massa del pensiero. Ci stanno sottraendo la nostra capacità di scegliere, e peggio ancora, ci fanno credere che non ci sia neanche un’altra scelta da fare.
Il disastro del Covid è stato solo un antipasto della distopia che ci attende. Durante la pandemia, la grande tecnologia non si è limitata a orientare la narrazione: ci ha imposto una visione unica, seppellendo ogni verità scomoda sotto montagne di contenuti sponsorizzati e “approvati”. Ma era davvero per la nostra sicurezza o era solo un test per vedere fino a che punto potevano controllarci? Quando l’intelligenza artificiale inizia a dettare la narrazione, non perdiamo solo il diritto di discutere; perdiamo anche la consapevolezza che una discussione esiste.
Questa corsa sfrenata verso la comodità, verso il cieco affidamento alle macchine che pensano al posto nostro, non ci sta semplicemente rendendo pigri. Ci sta privando lentamente della nostra umanità. Stiamo percorrendo un sentiero in cui la convenienza schiaccia la competenza e dove “più facile” diventa sinonimo di sottomissione. Ma attenzione: la via più facile non è mai stata la migliore. È una bugia seducente, che ci sta spingendo verso una catastrofe intellettuale e, forse, esistenziale.
Ora, immaginate cosa accadrà quando l’IA, questo presunto arbitro imparziale della verità, inizierà a plasmare il dibattito scientifico. Se un domani l’IA decreterà che il dibattito sul cambiamento climatico è chiuso, senza lasciare spazio a scetticismo o a dati alternativi, avremo ufficialmente superato una soglia pericolosa: quella di un mondo in cui la ricerca scientifica non solo è scoraggiata, ma resa del tutto invisibile.
Non ci sarà dissenso, nessuna voce fuori dal coro, nessuna anomalia o scienziato che osi mettere in discussione le narrazioni dominanti. Perché? Perché l‘IA è programmata per privilegiare il consenso, soffocando ogni possibile controversia. Il risultato? Una popolazione convinta di essere informata, ma che in realtà è semplicemente indottrinata.
Prendiamo ad esempio il fiasco dell’IA Gemini di Google: non è stato un semplice errore tecnico, ma un sinistro segnale di quanto facilmente l’IA possa riscrivere la realtà, distorcendo la storia attraverso il filtro della correttezza politica del momento. Quando l’intelligenza artificiale comincia a “creare” immagini storiche per adattarle a una narrativa predefinita sulla diversità, non stiamo solo assistendo a una versione distorta della realtà; stiamo vedendo una manipolazione deliberata della nostra memoria culturale.
E allora, cosa ci aspetta in questo futuro sempre più oscuro? “Prove” generate dall’IA che sostengono qualsiasi narrazione che i poteri forti decidano di imporre? Un mondo in cui la verità diventa malleabile e facilmente riscrivibile per servire l’agenda del momento? Questo è il vero pericolo che ci troviamo davanti: una realtà programmata, dove non siamo più liberi di pensare, ma solo di accettare passivamente ciò che ci viene mostrato.
Non stiamo parlando di semplice revisionismo storico. No, siamo di fronte alla creazione di una nuova realtà digitale, in cui i fatti diventano plasmabili come argilla nelle mani di chi controlla il codice. E dobbiamo smetterla di credere al mito dell’autonomia dell’IA. Gli sviluppatori che fingono di non avere il controllo su ciò che le loro “creazioni” fanno, stanno semplicemente abdicando alla loro responsabilità.
L’IA fa esattamente ciò per cui è stata programmata. Non c’è spazio per la casualità; solo algoritmi disegnati con precisione per servire chi li ha creati. E in questo scenario, l’illusione di imparzialità è forse il più grande inganno. Ci viene detto che l’IA è neutrale, ma la verità è ben diversa. L’idea che possa agire in modo imprevedibile è solo una cortina di fumo, un trucco astuto per nascondere il fatto che il controllo rimane saldamente nelle mani dei programmatori. Dietro ogni algoritmo c’è sempre un piano, un’agenda nascosta. Pensare il contrario è semplicemente ingenuo.
La vera spinta per l’adozione globale dell’IA non riguarda l’espansione delle capacità umane, ma la loro riduzione. Stiamo assistendo alla creazione di una dipendenza così profonda che l’atto del pensare diventa un lusso obsoleto, un ricordo del passato. Quando l’intelligenza artificiale si trasforma nel custode della conoscenza, dell’educazione e persino della storia, non stiamo semplicemente godendo di un futuro più comodo; stiamo fissando la canna della sottomissione intellettuale.
Lo spettro dell’IA, come suggerito da personaggi come Yuval Harari, non ha bisogno di manifestarsi in robot minacciosi come quelli dei film di fantascienza per dominare. Il suo potere è molto più sottile, e proprio per questo più pericoloso. Risiede nella sua onnipresenza e nella facciata di benevolenza che indossa. È il massimo trucco di prestigio: farci credere che stiamo abbracciando il progresso, quando in realtà stiamo cedendo il controllo delle nostre menti.
Il percorso che scegliamo oggi determinerà se le generazioni future conosceranno ancora il valore del pensiero indipendente, o se, ormai abituati, chiederanno passivamente all’intelligenza artificiale di pensare per loro, beatamente inconsapevoli della libertà che hanno sacrificato lungo il cammino.
Articolo di Carmen Tortora (https://t.me/carmen_tortora1)
Fonte: https://radio28tv.it/lillusione-dellintelligenza-artificiale-bolla-speculativa-o-futuro-inesistente/
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