Necessità karmica e Libertà
di Rudolf Steiner
Si comprenderà nel modo migliore il karma contrapponendogli l’altro impulso attivo nell’uomo, quello che viene indicato con il nome di libertà. Consideriamo ora per sommi capi la questione del karma. Che cosa significa?
L’esistenza umana si svolge in una successione di vite terrene, e mentre attraversiamo una di queste vite possiamo, per lo meno col pensiero, volgerci indietro e vedere come l’attuale sia la ripetizione di un certo numero di altre che l’avevano preceduta. La vita attuale fu preceduta da un’altra, questa da un’altra ancora, fino a quando arriviamo a tempi per i quali non si può più parlare di ripetizione delle vite terrene nel senso odierno, perché in quel periodo remoto la vita, tra nascita e morte e quella tra morte e rinascita, diventano a poco a poco talmente simili, che l’odierna grande differenza tra di loro, non esiste più.
Oggi viviamo nel nostro corpo terreno tra nascita e morte in maniera che, nello stato di coscienza ordinaria, ci sentiamo molto separati dal mondo spirituale. Con lo stato di coscienza usuale, si parla del mondo spirituale come dell’aldilà, e c’è chi arriva anzi a porre in dubbio la sua esistenza, o anche a negarla del tutto.
Ciò dipende dal fatto che la vita terrena chiude l’uomo entro i limiti del mondo sensibile esterno e dell’intelletto, che abbraccia solo quanto è direttamente connesso con la vita terrestre stessa. Ne derivano tutte le dispute, le quali hanno in realtà sempre radice in una mancanza di conoscenza.
Tali dispute non hanno dunque senso, come in genere non ha senso discutere intorno a concetti. Quindi non ci soffermeremo su tali problemi e ci limiteremo a richiamare l’attenzione su di essi. Infatti, come per chi non la conosce, l’aria non è qui, ma appartiene all’aldilà, così il mondo spirituale, che tuttavia ci attornia come l’aria, è un aldilà per chi non lo conosce. Per chi lo conosce è invece un “aldiqua”.
Si tratta dunque semplicemente di rendersi conto che, nell’attuale periodo dell’evoluzione terrena, l’uomo dimora tra nascita e morte nel suo corpo fisico e in tutto il complesso della sua organizzazione, con una coscienza che in un certo senso lo separa da un mondo spirituale di cause che, tuttavia, agiscono nella sua esistenza terrena, fisica. Fra la morte e un nuova nascita egli vive poi in un altro mondo, in un mondo che in confronto a quello fisico può essere chiamato spirituale; in esso egli non ha più un corpo fisico percepibile ai sensi, ma vive come essere spirituale.
Il mondo in cui si vive tra nascita e morte, appare allora altrettanto estraneo, quanto alla coscienza ordinaria terrena appare estraneo il mondo spirituale. L’uomo disincarnato china lo sguardo verso il mondo fisico, come l’uomo fisicamente vivo lo solleva verso i mondi spirituali; solo i sentimenti sono per così dire opposti. Mentre tra nascita e morte l’uomo guarda al mondo spirituale e vi trova un certo compenso per quanto nella vita gli è scarsamente concesso oppure non lo appaga, tra la morte e la rinascita, per l’estrema abbondanza degli eventi, sempre troppi in rapporto a quanto può sopportare, egli prova di continuo il desiderio di tornare alla vita terrena, a quel che per lui è allora l’aldilà; nella seconda metà della vita tra morte e rinascita attende poi davvero con grande desiderio, di poter far ritorno alla vita terrena attraverso la nascita.
Mentre nell’esistenza terrena ha paura della morte, perché è incerto su quanto vi sarà dopo (nella coscienza ordinaria regna difatti grande incertezza al riguardo), fra la morte e una nuova nascita domina una certezza stragrande sulla vita terrena, una certezza che intontisce, che annienta addirittura. Perciò l’uomo sperimenta allora condizioni di impotenza, affini a quella di svenimento, che determinano in lui la nostalgia del ritorno sulla Terra.
Questi sono soltanto alcuni accenni sulla grande differenza tra vita terrena e vita tra morte e rinascita. Se però risaliamo al passato, anche solo al periodo egizio che va dal terzo al primo millennio avanti l’era cristiana, se risaliamo cioè agli uomini che noi stessi fummo in una precedente incarnazione, troviamo che allora la vita terrena, di fronte alla chiara coscienza odierna (oggi veramente la coscienza è chiara in modo eccezionale, tutti sono davvero molto intelligenti, e non lo dico con ironia), di fronte a tale chiara coscienza, nel periodo dell’antico Egitto la vita durante l’esistenza terrena trascorreva in uno stato di coscienza più sognante, uno stato di coscienza che non si contrapponeva così nettamente alla realtà esterna, ma era colmo di immagini che rivelavano qualche parte della spiritualità che compenetrava il mondo. La spiritualità penetrava ancora nell’esistenza terrena fisica.
A questo punto si può obiettare: se l’uomo aveva una coscienza sognante, non del tutto chiara, come poté egli eseguire i poderosi lavori che vennero compiuti ad esempio nel periodo egizio e in quello caldaico? Basta ricordare come nei dementi, proprio in condizioni di pazzia, si verifica talvolta uno straordinario accrescimento delle loro forze fisiche, tanto da renderli capaci di sollevare pesi che in condizioni normali non avrebbero potuto portare. In realtà, la forza fisica di quegli antichi uomini che nell’aspetto erano forse più gracili degli attuali (ma non sempre chi è corpulento è forte e chi è sottile è debole), era maggiore.
Essi non concentravano la loro attenzione sopra ogni atto fisico eseguito, ma parallelamente alle azioni fisiche, vivevano esperienze interiori nelle quali si manifestava ancora il mondo spirituale. Quando quegli uomini attraversavano la vita tra morte e rinascita, in quella vita ascendevano assai più elementi della vita terrena, se posso usare l’espressione “ascendere”. Oggi è difficilissimo intendersi con chi si trova nella vita fra morte e rinascita, perché le lingue moderne hanno a poco a poco assunto una forma che i morti non intendono più. Dopo la morte i sostantivi, ad esempio, vengono solo percepiti come spazi vuoti. I morti comprendono ancora solo i verbi, ciò che è mobile, attivo, e mentre sulla Terra i materialisti insistono sempre sull’opportunità di ben definire ogni cosa, di nettamente delimitare ogni concetto, il defunto non conosce definizioni, perché conosce solo il movimento, non quanto è definito, delimitato.
Il linguaggio, che in tempi antichi viveva sulla Terra come uso e consuetudine di pensiero, poteva ancora ascendere nella vita tra morte e rinascita; così molto tempo dopo aver abbandonato il piano fisico, alla persona morta perveniva ancora un’eco delle sue esperienze e anche degli eventi che si erano svolti sulla Terra dopo la sua morte. Se poi risaliamo a epoche ancora più remote, al tempo dopo la catastrofe atlantica, otto o novemila anni prima dell’era cristiana, le differenze fra la vita sulla Terra e la vita nel cosiddetto aldilà erano ancora minori, finché retrocedendo ancora si arriva gradatamente a epoche in cui esse scompaiono del tutto.
A quel punto non possiamo più parlare di ripetute vite terrene. La ripetizione delle vite terrene ha dunque un limite nel passato, e ugualmente ne avrà uno guardando avanti nel futuro. Quel che comincia in modo del tutto cosciente con l’antroposofia, l’accoglimento cioè del mondo spirituale nell’ambito della coscienza ordinaria, porterà come conseguenza che il mondo terreno penetrerà esso pure sempre più nella sfera in cui l’uomo vive tra morte e rinascita: la coscienza non sarà però sognante, ma diventerà, anzi, sempre più chiara.
La differenza tra la vita terrena e quella soprasensibile diminuirà sempre più; la ripetizione delle vite terrene sta pertanto tra due limiti, oltre i quali l’esistenza umana si svolge in condizioni diverse; non ha allora più alcun senso parlare di ripetute vite terrene, perché appunto la differenza fra vita terrena e vita spirituale non è tanto grande quanto lo è ora.
Se dunque consideriamo l’attuale ampio periodo di tempo, vediamo che dietro una vita terrena ve ne sono molte altre (non innumerevoli, perché un’indagine spirituale precisa può anzi contarle), e che in quelle precedenti vite attraversammo vicende in cui furono intrecciati molteplici rapporti umani. Gli effetti dei rapporti fra uomo e uomo che si svolsero nel passato e si sperimentarono, penetrano nell’attuale vita terrena, come gli effetti delle azioni attuali penetreranno nella vita terrena successiva. Dobbiamo pertanto cercare in esistenze passate le cause di molte cose che si presentano ora nella nostra vita.
A questo punto verrà fatto di chiedere: se quel che sperimentiamo ora è determinato da cause, come possiamo essere liberi?
Vista così la questione è davvero importante, poiché l’indagine spirituale mostra realmente che ogni vita terrena è determinata da quelle che l’hanno preceduta. D’altro lato, nell’uomo esiste senz’altro la coscienza della libertà. Nella mia “Filosofia della Libertà” dico che non si capisce l’uomo se non ci si rende conto che tutta la vita della sua anima è diretta, è orientata verso la libertà, verso una libertà però che dobbiamo giustamente comprendere.
Appunto in quel libro si trova un’idea della libertà che è importantissimo comprendere nel senso giusto, e cioè che la libertà viene in primo luogo sviluppata nel pensiero. La sorgente della libertà sgorga nel pensiero. L’uomo ha diretta coscienza di essere libero nel pensiero. Si può osservare che oggi molti pongono in dubbio la libertà. Ciò mostra soltanto che il fanatismo teorico è più forte dell’esperienza diretta nella realtà. Non si presta più fede alle proprie esperienze perché si è pervasi di vedute teoriche.
Dall’osservazione dei processi naturali si trae l’idea che tutto è determinato per necessità, che ogni cosa è determinata da una causa: quindi anche un concepire un pensiero ha una causa. Non si pensa affatto alle ripetute vite terrene, ma si crede che il contenuto di un pensiero sia determinato, così come lo è quanto viene prodotto da una macchina. Con questa teoria della causalità generale, come viene chiamata, l’uomo spesso nasconde a se stesso la coscienza della propria libertà, tuttavia, chiaramente presente in lui. Ma non appena riflette su se stesso, egli sperimenta la libertà che è un fatto.
Alcuni pensano che il sistema nervoso sia un sistema naturale che produce come per incantesimo i pensieri. I pensieri sarebbero così fatti naturali, come per esempio è naturale che la fiamma arda per effetto di combustione, e non si potrebbe parlare di libertà. Quelle persone però si contraddicono già con il loro stesso modo di esprimersi. Da giovane avevo un amico (ne ho già parlato altre volte) che a un certo punto era stato preso dal fanatismo di pensare in modo del tutto materialistico. Egli diceva: “Quando cammino, questo avviene perché i nervi del mio cervello sono attraversati da certe cause che determinano appunto il camminare”. Talvolta le nostre discussioni non finivano più, finché un giorno gli dissi: “Vedi, tu affermi: ‘io vado’. Dovresti piuttosto dire: ‘il mio cervello va’. Se credi realmente nella tua teoria non devi dire: ‘io vado, io afferro’, bensì: ‘il mio cervello afferra, il mio cervello va’. Perché dunque menti?”. Questi sono i teorici. Vi sono poi anche i pratici. Se osservano in loro qualche difetto di cui non vogliono spogliarsi, essi dicono: “Eh già… Ma di questo non mi posso liberare, è insito nella mia natura! E qualcosa venuto da sé, non posso oppormici”. Sono molti quelli che si appellano alla loro natura come a una costante produttrice di cause. Solo che spesso tali persone diventano illogiche quando accade che palesino qualche bella qualità, qualcosa che non richiede scusanti, ma per cui gradirebbero anzi lodi. Allora esse si distanziano dalla loro teoria.
La libertà umana è appunto un fatto e può venire direttamente sperimentata. Già nella vita ordinaria accade che facciamo in piena libertà date cose che però non potremmo facilmente esimerci dal fare, e tuttavia non sentiamo che esse ledano la nostra libertà. Supponiamo di aver deciso di costruirci una casa. A ultimarla occorrerà per esempio un anno, fra un anno andremo ad abitarla. Sentiremo forse pregiudicata la nostra libertà per il fatto che, dopo un anno, dovremo dire: “adesso la casa c’è, devo andare ad abitarla?” Sentiremo in questo una costrizione? Le due cose coesistono e anche nella vita ordinaria accade che ci impegniamo per una cosa e che, quando questa sarà un giorno divenuta realtà, dovremo fare i conti con essa.
Prendiamo ora tutto quello che deriva dalle nostre esistenze passate, e con cui dobbiamo fare i conti perché dipende da noi, così come dipende da noi la costruzione della casa; dato che la nostra vita terrena attuale è determinata dalle precedenti, non sentiremo pregiudicata la nostra libertà. Certo, si potrebbe anche dire: “va bene, ho costruito una casa per me, ma voglio restare libero, non subire costrizioni”. Perciò fra un anno non andrò ad abitarla, la venderò. Bene! Si potranno pensare varie cose, si potrà pensare che chi ragiona così non sa quel che vuole. Certo si può avere tale atteggiamento, ma per ora prescindiamo dalla possibilità che qualcuno sia tanto fanatico della libertà da proporsi di continuo cose che poi, per salvaguardare la propria libertà, tralascia di fare; si potrà forse dire che egli non ha nemmeno la libertà di portare a termine i suoi proponimenti, che sta perpetuamente sotto il pungolo di voler essere libero, ed è addirittura aizzato da tale fanatismo di libertà.
Queste cose non vanno davvero comprese in modo rigido e teorico, ma in modo vivo. Passiamo ora ad un concetto più complesso. Se all’essere umano attribuiamo libertà, agli esseri delle gerarchie superiori, che non sono ostacolati dai limiti della natura umana, dovremo attribuirla in grado anche maggiore. A questo punto, qualcuno potrebbe costruire una singolare teoria teologica e dire: “Dio deve essere libero. Egli ha tuttavia ordinato il mondo in una determinata maniera, e questo lo lega: non può ogni giorno mutare l’ordine del mondo, quindi Dio non è libero”.
Non usciremo da un circolo chiuso, contrapponendo in questo modo la necessità karmica interiore e la libertà, che è un fatto della nostra coscienza, un semplice risultato di auto-osservazione. In tal modo non se ne esce. Prendiamo ancora l’esempio della casa che ci aiuta a procedere. Un uomo si costruisce una casa. A seguito di tale decisione egli influisce in un determinato modo sul proprio avvenire. Quando la casa sarà pronta, se egli terrà conto della precedente decisione di abitarla, a tale riguardo non gli rimarrà in apparenza alcuna libertà. Sembra che egli abbia limitato da se stesso la sua libertà, che non sia più libero. Però entro la casa stessa tante altre cose gli rimangono libere. Sarà libero di vivere in quella casa in modo saggio oppure stolto, da persona insopportabile oppure amorevole verso il suo prossimo. Avrà la libertà di alzarsi di buon mattino oppure tardi. Altre necessità potranno forse presentarsi, ma in rapporto alla casa potrà alzarsi quando vuole. Sarà libero di vivere in essa da antroposofo oppure da materialista e per altre infinite cose egli rimarrà libero.
Quindi, nonostante la necessità karmica, nelle singole vite umane innumerevoli cose rimangono libere, sono realmente nell’ambito della libertà. A questo punto si potrà ancora dire: bene, nella vita abbiamo dunque una certa zona di libertà. Sì, è così: abbiamo una limitata zona di libertà e intorno la necessità karmica. Si potrà forse osservare: va bene, in una certa zona sono libero, ma poi arrivo al limite della mia libertà; ivi sento ovunque la necessità karmica. Mi muovo nella mia zona di libertà, ma ai suoi limiti arrivo alla mia necessità karmica e la percepisco. Se il pesce pensasse in questo stesso modo, si sentirebbe molto infelice nell’acqua, poiché nuotando anch’esso arriva ai limiti dell’acqua fuori dei quali non può vivere. Il pesce tralascia pertanto di uscirne. Rimane dentro, nuota nell’acqua e non si cura dell’aria, e di quant’altro sta intorno. Di certo il non poter respirare con i polmoni non lo rende affatto infelice. Per soffrire del fatto di poter respirare solo attraverso branchie e non polmoni, occorrerebbe che il pesce avesse dei polmoni di riserva e potesse confrontare il vivere nell’acqua col vivere nell’aria. In tal caso però tutto il suo modo di sentire e ogni altra cosa in lui sarebbero diversi.
Applicando questo paragone alla vita umana nei confronti di libertà e di necessità karmica, diremo che, nell’attuale periodo terrestre, l’uomo possiede anzitutto la comune coscienza ordinaria con la quale vive nell’ambito della libertà, come il pesce vive nell’acqua, e non penetra con questa coscienza in quella necessità karmica.
Solo quando comincia a percepire realmente il mondo spirituale (condizione paragonabile a quella del pesce che avesse polmoni di riserva), quando vive davvero in esso, l’uomo arriva ad afferrare un’immagine degli impulsi che si esplicano in lui come necessità karmica. Allora vede le sue precedenti vite e, scorgendo in quelle le cause delle sue esperienze attuali, egli non sente e non pensa: “ora sono sotto la costrizione di una ferrea necessità, la mia libertà è lesa”, ma scopre anzi di avere egli stesso preparato i fatti attuali, come chi si è costruito una casa guarda alla risoluzione presa in precedenza. Chi si è fatto costruire una casa, si domanderà se fu una decisione saggia oppure stolta. Secondo le circostanze potrà giudicare in modo diverso, ma se la decisione di costruire gli apparirà essere stata molto stolta, egli potrà tutt’al più dire di essere stato uno sciocco.
Nella vita terrena siamo seccati quando di un’azione compiuta dobbiamo ammettere che fu stolta. Tale ammissione non ci garba affatto; non vorremmo soffrire per la conseguenza dei nostri errori. Si vorrebbe non aver preso la decisione. Ciò vale però solo per la vita terrena attuale ed è determinato dal fatto che, fra la stoltezza della determinazione presa e la pena che ne deriva, la necessità cioè di sperimentarne le conseguenze, trascorre solo un tratto di vita terrena. Rimane sempre così.
Non è però così fra le singole vite terrene, perché fra ognuna di esse si stende la vita fra morte e rinascita e questa vita modifica molte cose che non si modificherebbero se la vita terrena continuasse in modo simile. Supponiamo di guardare a una vita terrena precedente. In essa abbiamo fatto del male a qualcuno. Tra quella passata esistenza e l’attuale è trascorsa la vita tra morte e rinascita, durante la quale non abbiamo potuto fare a meno di pensare che, in conseguenza del danno causato ad altri, noi stessi siamo diventati più imperfetti. Il danno cagionato ha diminuito il nostro valore, ci ha animicamente mutilati.
Occorre riparare, e prendiamo la decisione di fare qualcosa nella nuova vita terrena per riparare l’errore commesso. Tra morte e rinascita si elabora con la propria volontà ciò che produrrà un pareggio che compenserà l’errore. Se invece abbiamo fatto del bene a qualcuno (fra morte e rinascita questo ci apparirà chiarissimo) vedremo che la vita terrena si svolge a beneficio dell’intera umanità. Scopriremo che, se nella vita precedente abbiamo aiutato qualcuno, così ch’egli poté conseguire risultati ai quali non sarebbe pervenuto senza di noi, questo ci lega a lui anche per la vita fra morte e rinascita, affinché quanto abbiamo raggiunto insieme per il perfezionamento umano, possa ulteriormente svilupparsi. Nella successiva vita terrena torneremo a cercare quella persona per continuare ad agire grazie al perfezionamento da lei conseguito per nostro tramite.
Mediante vera penetrazione nel mondo spirituale, se si percepisce il campo delle necessità karmiche, non si possono odiare tali necessità, ma osservando le azioni compiute in passato si dirà: “deve accadere, e in piena libertà, quel che accade per un’interiore necessità”. Non accadrà mai che dissenta dal karma chi lo conosce davvero. Quando il karma ci porta incontro cose spiacevoli, dovremmo considerarle attraverso la conoscenza delle leggi generali del mondo. E allora ci si chiarirebbe sempre più, che quanto il karma ci porta incontro, ci è di maggior giovamento che non sarebbe il dover cominciare di nuovo con ogni nuova vita terrena come se fossimo pagine bianche.
Noi stessi siamo in realtà il nostro karma, siamo quello che proviene dalle precedenti vite terrene. Non ha senso ritenere che alcunché del karma (vicino al quale esiste veramente la sfera della libertà) dovrebbe essere diverso, poiché non si debbono criticare i singoli particolari di un tutto coerentemente connesso. Può accadere che a qualcuno non piaccia il suo naso; egli non può tuttavia limitarsi a criticare il solo naso: esso deve in effetti essere come è nell’insieme di tutta la persona. Chi dice che vorrebbe avere un altro naso, dice in realtà che vorrebbe essere un altro uomo, ma così distrugge se stesso nel pensiero. Non è però cosa che si possa fare. Così non possiamo distruggere il nostro karma, perché noi stessi siamo il nostro karma. Esso non ci turba affatto, perché si svolge a lato delle azioni che dipendono dalla libertà, e non le pregiudica in alcun modo.
Vorrei ancora spiegarmi mediante un altro paragone. Noi camminiamo: il terreno su cui camminiamo esiste, e nessuno si sente leso perché ha il terreno sotto di sé. Si dovrebbe anzi sapere che senza un terreno solido sotto i piedi non si camminerebbe, si cadrebbe dappertutto. Così pure è della libertà: è necessario il terreno della necessità; la libertà deve erigersi sopra una base. Questa base siamo noi stessi. Non appena il concetto di libertà e il concetto di karma vengono giustamente compresi si può senz’altro accordarli.
Allora non si arretrerà spaventati di fronte all’esame della necessità karmica, e si potrà anzi arrivare in certi casi a questa considerazione: supposto che mediante la conoscenza iniziatica qualcuno possa vedere le sue precedenti vite terrene, egli verrà in tal modo ad apprendere che nel passato aveva attraversato questa o quella vicenda, che porta ora i suoi risultati nella vita attuale. Se egli non avesse conseguito la scienza dell’iniziazione sarebbe costretto a determinate azioni da una necessità oggettiva, le farebbe inevitabilmente, e non sentirebbe per tal ragione lesa la sua libertà, che si esplica infatti nel campo della coscienza ordinaria; essa non penetra nel dominio dove agisce la necessità, come il pesce non si solleva nella regione dell’aria. Se però possiede la scienza dell’iniziazione, egli guarda indietro, vede la sua vita precedente, e le condizioni allora formatesi gli appaiono come il compito che ora deve assolvere, al quale deve consapevolmente accingersi. È davvero così.
Il non iniziato (sembra paradossale, ma è vero) in sostanza sa sempre per impulso interiore quello che deve fare. Sì, gli uomini sanno sempre quel che hanno da fare, si sentono sempre spinti verso l’una o l’altra cosa. La condizione cambia per chi si avvia sul cammino della scienza iniziatica. Di fronte alle esperienze della vita in lui sorgono particolari problemi. Quando si sente indotto a fare una cosa, sperimenta al contempo una spinta a non farla, gli viene a mancare l’oscuro impulso che guida la maggior parte degli uomini. In realtà, se non entrassero in gioco altri elementi, ad un certo gradino della conoscenza iniziatica, l’uomo potrebbe dirsi: adesso mi metto a sedere, e passerò nel miglior modo tutto il resto della vita; ho quarant’anni e non farò più niente, non mi importa più di niente. Non si sente realmente più alcun deciso impulso all’azione.
Non dobbiamo credere che l’iniziazione non abbia una sua realtà. È singolare quel che la gente talora ne pensa. Chi mangia un pollo arrosto, crede alla sua realtà, ma della scienza dell’iniziazione i più credono che abbia solo effetti teorici. Essa produce invece effetti vitali, e uno di essi è quello a cui ho accennato. Prima di avere la scienza iniziatica, sulla base di un’oscura spinta, l’uomo ritiene una data cosa importante e trascurabile un’altra. L’iniziato, se null’altro accadesse, potrebbe mettersi seduto e lasciare che tutto si svolga a proprio modo, perché non gli importa più che una cosa accada e l’altra no.
Per lui vi è un solo rimedio al non sedersi su una sedia, guardare il mondo e dirsi che tutto gli è indifferente; non è infatti così, perché l’iniziazione porta infatti qualcosa d’altro, porta a dirigere lo sguardo a vite precedenti. Egli legge allora nel suo karma i compiti dell’attuale vita terrena ed esegue coscientemente quanto gli impongono le sue incarnazioni precedenti. Non tralascia di eseguire quei compiti pensando che ciò pregiudichi la sua libertà, ma anzi li esegue perché, assieme alle vicende delle precedenti vite terrene, egli vede anche l’esistenza attraversata tra morte e rinascita e vede di aver allora riconosciuto che era bene prendere su di sé le conseguenze delle proprie azioni. Si sentirebbe non libero se non potesse essere in grado di eseguire i compiti impostigli dalle precedenti vite (1). Una contraddizione fra necessità karmica e libertà non esiste dunque, né prima né dopo essersi accostati alla scienza iniziatica.
Prima non esiste perché, con la coscienza ordinaria, l’uomo rimane unicamente nel campo della libertà, e la necessità karmica si svolge fuori di lui come un fenomeno di natura: non sente altro al di fuori di quanto gli propone la sua natura; e neppure esiste dopo, poiché l’uomo si trova allora d’accordo col proprio karma, considera giusto adeguarvisi. Chi si è fatto una casa non dice che andarla ad abitare pregiudica la sua libertà, ma dirà piuttosto: “ora che l’hai costruita, va ad abitarla e vivi liberamente nella tua casa”; così chi, mediante la scienza dell’iniziazione, guarda le sue vite passate sa che diviene libero appunto mercé l’assolvimento dei propri compiti karmici, entrando cioè nella casa che egli stesso si è costruito in precedenti esistenze. Ho voluto oggi mostrare come nella vita umana la libertà sia compatibile con la necessità karmica.
Rudolf Steiner – Conferenza tenuta a Dornach il 23 febbraio 1924, contenuta nel volume primo de “Considerazioni esoteriche sui nessi karmici“, pp. 38-51, Editrice Antroposofica, Milano, 1985.
Note:
(1) A questo punto Rudolf Steiner osserva che la parola “karma” è giunta in Europa attraverso la lingua inglese, e che la sua giusta pronuncia sarebbe ‘kèrma’ (con la “e” aperta come in “cioè”), mai comunque ‘kirma’, come alcuni dicono.
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