Il Fine dell’Uomo è comprendere il suo Vero Fine
di Francesco Lamendola
L’uomo ha un fine e ha anche uno scopo. Non viene al mondo per caso e non vive senza un perché. Questo era chiaro ai nostri nonni, ai nostri avi ma ha smesso di esserlo per noi.
La crisi della contemporaneità è la crisi del senso, del perché; ed è anche la crisi dell’essere. L’uomo sa dove sta andando quando sa chi è, quando sa in cosa consiste il suo essere. Diciamo pure, per adoperare un linguaggio religioso anziché filosofico: quando si riconosce come creatura, quale opera di un Creatore onnipotente, amorevole e onnisciente.
Che l’uomo abbia uno scopo e che sia fatto per un fine, lo si può dimostrare per mezzo del ragionamento; e lo ha fatto, superbamente, Aristotele, e dopo di lui san Tommaso d’Aquino. Essi non sono partiti da un assioma religioso: nella teologia si parte dalla Rivelazione divina e si scende, per così dire, verso le cose terrene; nella filosofia, al contrario, si parte dalle cose terrene e si sale verso l’assoluto, cioè, in termini religiosi, verso il divino.
La sana ragione naturale ci dice che le cose ben fatte non sono prodotte dal caso: il caso non produce alcunché di perfetto, ma sempre e solo qualcosa d’imperfetto. Anche la migliore delle cose nate dal caso sarà sempre meno buona (e meno bella) di una cosa nata da un progetto preciso e intelligente: questo ci dice anche l’esperienza. La natura, ad esempio, non può produrre una perfetta figura geometrica, nemmeno nei cristalli più ammirevoli: per avere una perfetta figura geometrica, un perfetto poliedro, ad esempio, ci vuole una mente umana che la pensi e la realizzi. D’altra parte, la natura non produce le cose a caso: ne produce talvolta, ma sempre a margine di una produzione diretta ad un fine. Questa è la regola, mentre il caso è l’eccezione.
Le cose create dall’uomo sono un’imitazione della natura, e sono tanto più buone, quanto più fedelmente s’ispirano ad essa. Un ritratto è l’imitazione del volto umano: la natura crea il volto, l’arte crea il ritratto; ma è la natura a dare a quel volto un’espressione, sempre diversa e ben individualizzata, al punto che non esistono due volti perfettamente identici – eppure ci sono miliardi di volti sulla faccia della terra. Il volo di un apparecchio è l’imitazione del volo degli uccelli; e la capacità d’un sommergibile di scendere nelle profondità marine è l’imitazione della stessa capacità da parte di certi pesci abissali.
Ora, l’uccello è fatto per volare: non vola per caso, non è un animale che possiede anche la capacità di alzarsi in volo: è tutt’uno con la capacità di volare. Certo, vi sono uccelli che non volano; ma si tratta dell’eccezione alla regola: sono divenuti troppo pesanti e con le ali troppo piccole; si sono adattati a vivere sulla terra, ma goffamente, proprio come certi animali marini, come le testuggini, si adattano a vivere anche sulla terra, ma sono fatti per il mare, e sulla terra sono lenti, maldestri, vulnerabili. Allo stesso modo, una gru meccanica è l’imitazione del braccio, una radiotrasmittente è l’imitazione dell’orecchio, e il computer è il tentativo d’imitazione di una cosa inimitabile: la mente umana.
Per questo dalla tecnica informatica non verrà, alla fine, niente di buono: è un tentativo impossibile e, per certi aspetti, empio, che nasce dal rifiuto dello statuto ontologico dell’uomo, quello di creatura, intelligente sì, certo, ma dotata pur sempre di un’intelligenza relativa, non assoluta; e soprattutto non riducibile ai processi delle sue terminazioni nervose e delle sue cellule cerebrali. C’è qualcosa d’altro, nella mente umana: qualcosa che non è in alcun modo riproducibile, anche se il computer può compiere operazioni matematiche quanto mai complesse in qualche frazione di secondo.
E l’uomo, per che cosa è fatto l’uomo? Aristotele risponde che ogni essere è fatto per realizzare la propria natura specifica, e per realizzarla nel modo più perfetto. Qual è la natura specifica dell’uomo, dunque? Il pensiero, senza dubbio: l’uomo è l’animale che vive di pensiero. Nessun altro animale gli si può paragonare in ciò, anche se alcune specie di animali superiori sono capaci, apparentemente, di qualche comportamento riflesso, di solito frutto di addestramento da parte dell’uomo stesso. La regola è che gli animali seguono l’istinto, non la ragione. L’uomo è il solo animale che seguendo la ragione, ad esempio, riconoscendo dei valori, è disposto a rinunciare al proprio istinto fondamentale, quello della sopravvivenza, e a rischiare la morte, pur di affermare la sua libertà, cioè la sua natura di uomo.
Dire ragione è come dire libertà. La ragione rende l’uomo libero; la costrizione o la distruzione della ragione lo rende schiavo. Per questo è ridicolo affermare, come fa Rousseau, che l’uomo nasce libero. L’uomo non nasce affatto libero: nasce dotato di ragione; e il retto uso della propria ragione lo mette in grado di determinarsi come un essere libero. E questo è anche il motivo, ci si passi questa fulminea incursione nell’ambito della teologia, per la quale Lutero, il primo dei moderni, è anche il primo teorico della schiavitù: negando il libero arbitrio, nega la libertà dell’uomo e fa dell’uomo un bruto, capace solo di grugnire.
Ma l’uomo non è un bruto: è colui che deve determinare la propria essenza, perché, unico fra tutte le creature, può innalzarsi al di sopra di sé stesso o sprofondarsi molto al di sotto. Tale è la fondamentale intuizione di Nietzsche, che gli assicura un eterno posto nell’Olimpo dei pensatori, per quante altre sciocchezze o fumisterie possa aver detto poi. Nietzsche è come lo Stazio di Dante: illumina la strada a quelli che son venuti dopo, mentre lui era ancora al buio; ma ciò non ci scioglie dall’obbligo della gratitudine nei suoi confronti. Dire ragione è dire libertà, ma dire libertà è come dire rischio: il rischio di una ragione mal diretta. Eppure l’uomo deve assumere un tale rischio, perché senza di esso non potrà mai divenire ciò che deve.
E cosa deve divenire, l’uomo? Deve divenire colui che pensa; ma non un pensiero qualsiasi, bensì il solo pensiero che sia veramente essenziale: quello del proprio scopo e del proprio fine. Quando l’uomo pensa a ciò che deve raggiungere e a ciò che deve fare di sé stesso, e si dirige in tale direzione, esercitando liberamente e coraggiosamente la propria libertà, allora e solo allora realizza il suo scopo e dà un senso compiuto al proprio esistere. Altrimenti rimane a metà, come un uccello senz’ali, o peggio, come un uccello che, per paura o per ignavia, non ha mai osato dispiegare le propri ali nell’aria. Ha preferito restarsene rincantucciato nel nido, e guardare inutilmente gli altri uccelli che volano alti e liberi nel cielo azzurro.
Dice dunque Aristotele nel suo Protrettico o Esortazione alla Filosofia, opera composta verso il 350 a. C. e che è andata purtroppo perduta, ma della quale possediamo numerose citazione nell’omonimo scritto di Giamblico, filosofo neoplatonico vissuto a cavallo fra il III e il IV sec. d. C. (9, 49,3 segg.; in: Aristotele, Dall’Accademia al Perìpato, a cura di Carmelo Spinelli, Napoli, Casa Editrice Ferraro, 1988, pp. 60-63): “Tra le cose che sono generate vi sono quelle che sono prodotte da un pensiero o da un’arte, per esempio una casa o una nave, le altre invece derivano dalla natura. Infatti gli animali e le piante sono generati dalla natura, come tutti gli esseri di questo ordine derivano da essa. Alcune però nascono anche a caso. Infatti di ciò che non nasce né dalla natura né dalla necessità, noi diciamo per lo più che sia stato generato dal caso. Gli esseri che nascono dal caso, non nascono in vista di un fine da realizzare, né essai hanno un loro scopo specifico. Invece nelle cose che derivano dall’arte, è presente un fine ed uno scopo – poiché l’artista ti fornirà sempre un motivo per il quale ed in vita del quale ha prodotto qualcosa – e questo fine sarà sempre al di sopra di ciò che nasce in virtù di esso.
Io voglio dire qui tutto ciò che un’arte produce per sé stessa, secondo la sua essenza, e non ciò che è prodotto per caso: in tal senso considereremo la medicina piuttosto causa della salute piuttosto che della malattia, e l’architettura piuttosto causa della erezione della casa che non della sua demolizione. Dunque tutto ciò che viene prodotto da una arte nasce per realizzare uno scopo, che è il fine ultimo dell’opera stessa; ciò che invece sorge a caso, non ha nessuno scopo. Tuttavia può talvolta accadere che dal caso nasca qualcosa di buono; ma per quanto ed in quanto essa dovesse la sua origine al caso, non sarebbe buona, poiché tutto ciò che scaturisce dal caso è sempre qualcosa di indeterminato. Invece ciò che nasce in maniera naturale, nasce sempre in virtù di un fine, anzi si forma sempre per un fine superiore a quello di ciò, che scaturisce dall’arte: infatti non è la natura che imita l’arte, bensì è questa che imita quella, e qualora l’arte venisse in aiuto alla natura essa potrebbe rendere perfetto ciò che la natura non ha completato.
Certe volte sembra che la natura stessa sia in grado di produrre qualcosa di perfetto con le sue forze e che non abbia bisogno di nessun aiuto, di essere autonoma, come per esempio nello sviluppo. Infatti alcuni semi si sviluppano senza nessuna cura, indipendentemente dal terreno nel quale sono stati seminati, altri invece hanno bisogno dell’intervento dell’agricoltore. Lo stesso avviene per le specie animali. Alcune pervengono del tutto autonomamente al loro sviluppo naturale, al contrario l’uomo ha bisogno per il suo mantenimento in vita di molti e svariati aiuti, già a partire dalla nascita e successivamente per la sua nutrizione. Se dunque l’arte imita la natura, ne deriva come conseguenza che ogni arte è sorta per realizzare uno scopo. In modo regolare significa anche in modo bello. Dunque ciò che nasce o è nato secondo natura, nasce o è nato ‘bello’, diversamente ciò che è contrario alla natura è ‘brutto’, perché si discosta dalla sua regolarità.
Perciò ciò che è generato secondo natura possiede uno scopo, come possiamo vedere in ogni nostro organo corporeo. Se per esempio prendi a considerare la palpebra, vedrai che essa non è stata creata senza scopo, bensì per aiutare l’occhio nel suo riposo e per proteggerlo da corpi estranei. Lo scopo di una cosa coincide dunque con ciò in vista del quale è stata generata. Se per esempio una nave doveva essere costruita per navigare, essa è stata allestita proprio per questa ragione. E le essenze viventi appartengono a ciò che è stato generato dalla natura e secondo natura, siano esse in genere tutte oppure le migliori o le più belle. Le cose non cambiano, se qualcuno pensa che la maggior parte di esse sia stata creata contro natura in conseguenza di una degenerazione o deformazione.
La più nobile essenza vivente è ora l’uomo, ed è chiaro che essa è stata creata dalla natura e secondo natura. Ma quale è dunque lo scopo per cui la natura e Dio ci hanno creato? A questa domanda Pitagora rispose: ‘per la contemplazione del cielo’, ed egli di sé stesso diceva di essere uno studioso della natura e di essere nato proprio per questo scopo. E anche di Anassagora si racconta che alla domanda per quale motivo fosse venuto al mondo, e perché desiderasse vivere, abbia risposto: ‘per osservare il cielo e le stelle, la luna ed il sole tutt’intorno’, come se tutte le altre cose non avessero alcun valore. Se dunque lo scopo di ogni cosa è ciò che sta più in alto – poiché proprio in vista di ciò essa viene al mondo, e lo scopo sta più in alto, anzi in sommo grado – e se lo scopo per natura consiste nel fatto che essa si realizzi fino alla fine, poiché il processo della natura si attua senza interruzione, ne deriva che, a proposito degli uomini, si verifica prima il loro sviluppo fisico e solo successivamente quello spirituale, e l’attuazione di ciò che è superiore, nel processo di sviluppo, viene dopo.
Dunque l’anima è successiva al corpo, e delle facoltà dell’anima l’ultima è la facoltà della conoscenza, poiché vediamo che questa negli uomini si forma, secondo l’ordine naturale, alla fine. Per questo motivo la vecchiaia richiede per sé solo questo bene. La sapienza è dunque la nostra aspirazione naturale e l’esercizio della ragione è lo scopo ultimo per cui siamo al mondo. Se dunque siamo stati generati, ciò è affinché vivessimo razionalmente ed imparassimo. Si è rivelata allora proprio giusta, dopo quanto si è detto, l’espressione di Pitagora, secondo cui Dio ha creato ogni uomo per la conoscenza e la speculazione“.
Riassumendo. L’uomo è prodotto dalla natura, ma la natura è creata da Dio. E come tutto, nel mondo della natura, è dotato di un fine ed è stato prodotto in vista di un fine, così anche l’uomo, anzi l’uomo a più forte ragione, essendo la creatura più perfetta di tutte: la sola dotata di ragione, libero arbitrio e volontà.
Tutta la cultura moderna altro non è che un tentativo, folle e sacrilego, di fargli scordare questa semplice verità, allontanandolo non solo dal suo fine, ma persino dalla consapevolezza del suo fine. L’uomo pertanto deve rientrare in sé stesso, deve riappropriarsi del tesoro che gli è stato sottratto con la sua acquiescenza: la piena consapevolezza di quel che è, di quale sia la sua vera natura, e verso quale fine sia diretto nel suo viaggio terreno. Che non termina con la morte: se così fosse, si potrebbe dire che tutta la sua ricerca di verità e di assoluto altro non è che una beffa. Ma l’uomo è intelligente: troppo intelligente per cadere vittima di una così grossolana illusione. Aristotele e san Tommaso non erano degli illusi, né degli sprovveduti; e non lo erano i nostri avi e i nostri nonni, con il loro sano buon senso e il loro laborioso realismo. Erano persone intelligenti e costruttive, e avevano di meglio da fare che trastullarsi col pensiero del nulla…
Articolo di Francesco Lamendola
Fonte: http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/filosofia/10627-il-fine-dell-uomo
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