La meditazione come addestramento alla morte
Ogni forma di meditazione è essenzialmente un modo per trascendere l’ego. In questo senso, la meditazione imita la morte, che non è altro che la morte dell’ego stesso.
Se una persona progredisce abbastanza bene nella meditazione, qualunque sia l’approccio prescelto, arriverà al punto in cui sarà stato così esaustivamente “testimone” del processo del trascendere mente e corpo, che alla fine assisterà alla morte dell’ego, risvegliandosi come anima sottile o anche come spirito. E questo è di fatto vissuto come una morte. Nello Zen è chiamata la “Grande Morte”. È un’esperienza che può essere abbastanza facile, una trascendenza relativamente tranquilla del dualismo soggetto/oggetto, oppure, poiché si tratta di una sorta di vera morte, può anche essere terrificante. Ma sia che il processo avvenga con leggerezza o drammaticamente, lentamente o velocemente, il sentimento di essere un essere separato muore, si dissolve, e ci si trova con un’identità che di fatto precede l’identità ordinaria ed è più elevata, un’identità con lo spirito universale e come spirito universale.
Ma la meditazione può essere anche un addestramento preparatorio alla morte effettiva del corpo. Alcuni sistemi meditativi (in particolare quelli Sikh e quelli Tantrici indù e buddhisti), contengono infatti specifiche meditazioni che simulano o inducono, avvicinandosi molto alla realtà, i vari stadi del processo del morire, come l’interruzione del respiro, il corpo che diventa freddo, il cuore che rallenta e a volte si ferma, ecc. In questo modo la morte fisica reale non è più una grande sorpresa, perdendo anche molto della drammaticità che la caratterizza.
Lo scopo di tale meditazione è quella di divenire capaci di riconoscere lo spirito, così quando corpo, mente, e anima si dissolveranno durante il processo del morire effettivo, si riconoscerà lo spirito, invece di fuggire e finire di nuovo nell’illusione della separazione; oppure si sarà in grado, se si sceglie di rientrare in un corpo, di farlo deliberatamente, cioè come un “bodhisattva” (dal sanscrito: letteralmente significa Essere: sattva, illuminazione: bodhi).
Queste meditazioni che simulano la morte, non mettono in pericolo la vita del praticante: il corpo non muore veramente, e neppure attraversa gli stadi veri e propri della morte. Piuttosto è come quando si trattiene il respiro per vedere che cosa succede in quella circostanza. Non si smette di respirare per sempre. Tuttavia, alcuni degli stati indotti da queste meditazioni sono potenti imitazioni del fatto reale. Il battito del cuore, per esempio, può veramente fermarsi per un lungo periodo, e così il respiro. In questi casi, il praticante sta “simulando” la morte, ma nel farlo realmente – anche se temporaneamente – dissolve le stesse energie che si dissolvono nella morte reale. Si tratta, quindi, di una imitazione della vera morte.
Come si relazionano le energie descritte nel Tantra con la meditazione? L’idea centrale del Tantra – in ambito indù, buddhista, gnostico, sikh – è che ogni stato mentale, ogni stato di coscienza, in altri termini, ogni livello nella Grande Catena dell’Essere, possegga una specifica energia, che lo sostiene. Ne consegue che se viene dissolta quell’energia particolare, viene anche dissolto il relativo stato di coscienza.
Questo processo di dissoluzione, è di fatto lo stesso che avviene nella morte: colui che medita sperimenta quindi, in un modo molto concreto, cosa succede quando tutte le energie vitali si dissolvono. Grazie all’induzione di queste esperienze del processo del morire per libera volontà del praticante, quando poi arriverà la morte vera egli conoscerà esattamente gli effetti provocati dalla dissoluzione di tali energie. Queste pratiche permettono anche di acquisire l’abilità di prolungare ogni singolo stato, particolarmente gli stati più sottili, perché il meditante ha man mano imparato a gestire tali stati. Giunti poi al reale punto finale del processo del morire, sarà molto facile, naturale e senza ostacoli riconoscere anche quest’ultimo stato, detto di “chiara luce”, perché il meditante lo ha già visto molte volte.
In breve, questa tipo di meditazione è una perfetta simulazione del vero processo del morire. Familiarizzandosi con essa e sviluppando la saggezza e la virtù, è possibile rimanere nella chiara luce e quindi conoscere la liberazione finale. Questo tipo di meditazione è ovviamente una prova molto dura e intensa. Non tutte le meditazioni sono così impegnative, e questa non è neanche l’unica meditazione che permette di attraversare interamente i livelli più elevati dell’evoluzione spirituale. Ma l’importanza di questi sistemi di meditazione, risiede nella descrizione fenomenologica incredibilmente ricca che fornisce, di un cammino contemplativo totale, e nel fatto che utilizza sia la consapevolezza mentale che le energie del corpo, per sondare le profondità dello spirito umano.
Anche se la maggior parte dei percorsi meditativi non sono così esigenti, essi, tuttavia, seguono sempre un processo di svolgimento generale che è nell’insieme simile. Vi è un iniziale sollevarsi al di sopra dell’ego grossolano, sperimentato come una liberazione dai limiti del sentirsi un io separato con le sue ossessive sofferenze. La liberazione iniziale – pur dipendendo dalle caratteristiche del percorso meditativo e della persona – può essere esperita come un tipo di coscienza cosmica o misticismo della natura, o come un iniziale risveglio dell’energia kundalini oltre la dimensione convenzionale, come un sorgere di poteri paranormali, o come un’esperienza interiore di luminosità beatificante… solo per nominare le esperienze più comuni.
Se la coscienza continua ad ascendere attraverso il sottile fino al causale, tutte queste esperienze continuano a intensificarsi, fino al punto in cui tutte si dissolvono o si riducono al puro senza-forma, al causale non-manifesto, al Vuoto, alla Divinità che precede Dio. L’anima ritorna allo spirito e si libera nell’infinito senza forma, nell’infinito senza tempo, nell’assorbimento non manifesto, nel vuoto radioso. La coscienza dimora come il Testimone immobile, la mente specchio senza forma che riflette in modo equanime tutto ciò che emerge, completamente indifferente al gioco delle sue stesse creazioni, del tutto silenziosa di fronte ai suoi stessi suoni, totalmente distaccata dalle forme del suo stesso divenire.
Il Vuoto è realizzato come non diverso dalla Forma, la mente specchio e ciò che essa riflette non sono due, la Coscienza si risveglia come l’intero Mondo. Il suono della cascata sul lontano orizzonte, lo spettacolo della dolce umida nebbia, il crepitio del fulmine a tarda notte durante la tempesta, in qualche modo ci comunicano tutto questo. Il soggetto e l’oggetto, l’umano e il divino, il dentro e il fuori, comunque li chiamiamo, non sono semplicemente altro che un solo Unico Tutto.
Tratto da “Death, Rebirth and Reincarnation” di Ken Wilber
Temo la domanda sia inutile, ma la faccio ugualmente: col suicidio come la mettiamo?
Parrebbe solo un deporre le armi, e poi? Ovvio che non c’è risposta, ma l’opinione, la guida, cosa dice a tal proposito? Ed ancora: a parte le sette, ci sono spiritualità che contemplano il suicidio sereno come cosa buona e giusta?
Grazie