La società come una scuola
Perché il mondo è nel caos? Perché c’è tanta rabbia ed egoismo tra le persone? E soprattutto… è possibile cambiare tale prospettiva?
Mi piace pensare, ovviamente semplificando, alla nostra struttura sociale come a una scuola: per analogia, quindi diremo, che c’è un dirigente scolastico (ovvero chi governa la società e decide per tutti), c’è un collegio degli insegnanti, (i vari partiti politici che si fanno guerra tra loro) e poi ci sono i bambini (i cittadini), che da sempre si dividono in bulli (persecutori) e bravi bambini (vittime).
Cercando di utilizzare un linguaggio semplice sul funzionamento della psicologia umana, iniziamo dicendo che ogni essere umano è un sistema complesso che agisce all’interno di sistemi più ampi, quindi in interdipendenza, che si influenzano a vicenda. Ovvero i macrosistemi incidono sul comportamento dei microsistemi (le persone) e i comportamenti delle persone influiscono sui macrosistemi (le strutture sociali).
Questo ci indica che ogni individuo è libero solo fino a un certo punto, essendo plasmato in primo luogo dalla sua biologia, i geni che ha ricevuto dai geni-tori, poi dall’ambiente sociale e culturale di appartenenza in cui è cresciuto, vive e si riproduce. Il resto lo fanno le esperienze di vita. Ecco perché non è possibile pensare a un individuo uguale a un altro, o immaginare un livello di coscienza uguale per ogni individuo.
A livello percettivo ognuno di noi costruisce un mondo personale a propria misura, in cui crede di sapere cosa è giusto o sbagliato, come deve comportarsi e come gli altri devono comportarsi con lui, ecc. Ogni individuo vive nella propria realtà. Ognuno di noi re-agisce al mondo senza conoscere i propri meccanismi psicologici, ma mettendo in atto comportamenti appresi, schemi e copioni di cui non siamo, nella maggioranza delle volte, registi e artefici, ma solo attori inconsapevoli.
Non possediamo il vero libero arbitrio, perché non decidiamo mai “consapevolmente” cosa vogliamo pensare, sentire, fare, costruire nella vita, ma rispondiamo agli stimoli esterni ed interni, in base a credenze inculcate, a condizionamenti sociali e familiari, allo scarso controllo che abbiamo sui nostri comportamenti e alla insufficiente conoscenza di come “funzioniamo” realmente.
Questo ci porta ad essere spesso rabbiosi, frustrati e nervosi. Percepiamo che il tempo ci sfugge, senza riuscire ad ottenere mai quella agognata felicità che ci hanno “venduto” come tale, prima in famiglia e poi a scuola. Ci veniva detto, quando eravamo bambini o ragazzi: …studia che troverai un lavoro e avrai una buona pensione per la vecchiaia; sposati con una brava ragazza o un bravo ragazzo e vedrai che ti sarà sempre fedele e non ti lascerà mai; metti da parte i soldi… e così via.
Non vi sembra normale dunque che una persona si senta “leggermente” presa in giro, e non avendo realizzato che poche, o forse nessuna di queste promesse di felicità, provi un senso di frustrazione e rabbia? La naturale conseguenza è allora puntare il dito contro le strutture sociali, la famiglia, la scuola, la politica. E’ sempre colpa degli altri, se non si ha ciò che si vuole e desidera!
Come bambini andiamo in giro per il mondo lamentandoci e chiedendo, o peggio pretendendo: un lavoro, un amore, una casa, una macchina, il rispetto. Pensiamo che tutte queste cose ci spettino di diritto, quindi se non riusciamo ad averle, siamo depressi e infelici. Ma questo atteggiamento non ci porta lontano e non ci permette certo di ottenere le cose che tanto desideriamo. Anzi per una legge misteriosa dell’universo, più ci attacchiamo a una cosa o a una persona, e più la vediamo lontana come un miraggio.
Ma se ognuno vuole essere felice e nessuno lo è veramente, che cosa non funziona allora nelle nostre vite, nella società? Quando eravamo bambini ci bastava poco per divertirci ed essere felici. Certo non dovevamo preoccuparci di tante cose che oggi dobbiamo conquistarci con la fatica e il sudore, ma eravamo più disposti a condividere con gli altri, a giocare insieme, a guardare il mondo con curiosità e speranza. Poi si cresce, la curiosità e la speranza ci abbandonano, mentre la frustrazione, la rabbia, e il senso di vuoto ci raggiungono.
Anche allora però c’erano dei bambini “furbetti”, che volevano la nostra merenda e non si facevano scrupoli a rubarcela, e dei quali eravamo bersagli di scherzi e prese in giro, quando non proprio di violenze fisiche e psicologiche. Se siamo stati fortunati queste cose le abbiamo viste solamente fare ad altri, senza intervenire. Tutto ciò non vi ricorda, in qualche modo, la situazione attuale della nostra società? Cosa succede allora se si decide di ribellarsi ai bulli? Cosa succede se un bambino ne difende un altro o se tutti i bambini insieme si ribellano al bullo di turno, che spesso viaggia in coppia o in gruppo, per sentirsi più forte?
Ma torniamo alla nostra analogia. Se proviamo a immaginare il mondo come governato, da un lato da bulletti, che pensano che la felicità si trovi nel rubare la merenda agli altri, o nel mostrare quanto sono forti facendo gruppo con altri bulli, e dall’altra da bambini piagnucolosi e timorosi che hanno paura di ribellarsi, e che credono che la felicità consista nel tenersi stretta la merenda, e nel mangiarla di nascosto. Non c’è allora grande differenza tra bulli e vittime, bensì una caratteristica comune: l’attaccamento alla materia e l’ingordigia di volerne sempre di più, tenendola tutta per sé.
Bambini che governano altri bambini. Stessa coscienza. L’unica differenza è che i bulli agiscono indisturbati all’interno della scuola perché sanno che le vittime hanno paura e non reagiscono. Ma come ci si deve comportare allora, per non avere più paura? Unirsi ad altre vittime? Cambiare strategia o addirittura ruolo, emulando i bulli e diventando bulli a nostra volta? Oppure rinunciare alla nostra merenda e al nostro gioco?
Le risposte non le abbiamo, ma è possibile fare una riflessione: se ci attacchiamo troppo agli oggetti dei nostri bisogni, credendo che questi ci daranno la felicità, questo atteggiamento ci porterà probabilmente solo infelicità. Certo, non possiamo vivere senza mangiare o bere, ma come i bambini possiamo, per esempio, rinunciare ad alcuni giochi, che tra l’altro usiamo poco e non ci divertono nemmeno tanto… forse invece di due macchinine possiamo usarne una? Forse invece della villa di Barbie possiamo usare le matite colorate? Forse invece della merendina super calorica possiamo mangiare un frutto?
Sicuramente una cosa è possibile fare: smettere di credere che per essere felici si debbano possedere cose o persone. E poi magari cambiare prospettiva: condividendo giochi e merende, smettendo di lamentarci e accorgendoci che, dopo tutto, non siamo soli nella “scuola della vita” e che altri bambini hanno i nostri stessi bisogni e provano la nostra stessa solitudine e inquietudine; capendo che rabbia e paura non portano mai da nessuna parte e che ognuno di noi è diverso e unico, e così come ci sono bambini che interpretano il ruolo dei bulli, ce ne sono altri che interpretano quello delle vittime. Potremmo forse cambiare scuola, ma anche lì le cose potrebbero essere uguali se non peggiori… e se invece cambiassimo gioco?
Fonte: http://tizianando.blogspot.it/
Commenti
La società come una scuola — Nessun commento