T’imploro, mamma… non lasciare che recidano i fiori
di Selvaggia
Ho acceso la tv, come ogni sera, per stordire il silenzio e riempire vuoti di presenze che ghiacciano l’aria, per coprire la tristezza che schizzava fuori dal maglione, per ottundere i pensieri che la mente voleva vomitarmi addosso.
Gli occhi assenti a guardare il video che mandava immagini che non vedevo, mentre piano mi scivolavo dentro, oltrepassando la pelle, incrociando vecchie ferite mescolate alle nuove, quelle appena generate dal mondo, che sanno ancora di carne bruciata e ossa spezzate.
Ho abbassato il volume e ho accettato di attraversarmi ancora una volta, disseppellendo cadaveri di dolori mai realmente trapassati, incontrandomi di nuovo con l’amarezza generata dalle delusioni, cercando risposte ai miei secolari “perché”, ripercorrendo gli errori, le lacerazioni, gli sbandamenti, i traguardi raggiunti e quelli lasciati alle spalle, con la pretesa di voler comprendere anche e soprattutto quello che si sottrae ad ogni regola di logica e di giustizia.
Gli incontri con me stessa avvengono spesso, ciclicamente, mi scavano solchi nello stomaco e pioggia di lacrime, riproducendo il senso di desolazione e smarrimento propri della depressione, ma non li temo più di tanto, perché so che vanno via se non li osteggio e addirittura li faccio accomodare dentro me, trattandoli come vecchi compagni venuti a farmi visita.
Durante questi viaggi viscerali ripercorro il mio disagio, l’orribile sensazione che devo aver provato già al primo vagito, quella di essere stata catapultata in un posto estraneo, illogico, senza senso, che si nutre di saperi precostituiti, di luoghi comuni, frasi fatte e verità che vengono spacciate per universali e assolute, di religioni che pur professando principi di pace e amore, si fanno guerra fra loro, un luogo in cui i valori autentici della mia coscienza si sarebbero presto scontrati con quelli di una falsa morale, più propensa a curare la forma a discapito della sostanza, particolarmente attenta alle convenzioni sociali e nemica acerrima di tutto quello che appare autentico, vero, genuino e soprattutto libero da condizionamenti.
“Mamma voglio fare ritorno al tuo ventre, ti prego…” Là solo mi sentivo protetta e al sicuro, là solo non conoscevo pianto, ma vivevo di gioia infinita e d’amore, là solo il mondo non avrebbe mai raggiunto e ferito il mio cuore. Ti imploro, mamma, non lasciare che i raggi del sole mi trafiggano il costato e che il gelo di diecimila inverni mi bruci la pelle, non lasciare che vada per disconnessi cammini lastricati di fango e miserie, trattienimi dentro di te, non tagliare il cordone che mi tiene ancorata e al sicuro, non permettere che il vuoto di eterni silenzi mi sconquassi nei miei anni migliori o che navi di tempeste mi approdino dentro.
“Dove sei,mamma?” Il giorno in cui ti fu chiaro che la tua bambina fosse ormai cresciuta e stesse per abbandonare le tue sottane, non provasti a trattenerla o a dissuaderla dall’andare. Quel giorno mi dicesti che il mondo è un brutto posto, che avrei dovuto fare attenzione ed io mi soffermai qualche secondo sul tuo volto per cercare di comprendere quale fosse la parte finale della tua frase, che a me risultava incompleta, quasi sospesa fra le labbra socchiuse.
Ma non lessi altro se non quello che mi avevi detto ed uscii di casa cominciando il mio cammino nell’ignoto e mi ritrovai a battere strade dissestate, impervie, infedeli e bugiarde, incontrai anime che piangevano sui marciapiedi delle loro vite allo sbando, vidi aghi conficcati nei cuori di deboli coscienze e mi imbattei nel dolore più cruento ed insopportabile; mi portavo dietro i miei ideali di amore e giustizia che non mi rendevano possibile tollerare l’idea che ci fossero esistenze costrette ai margini della società, mentre altrove si pasteggiava a caviale e champagne ostentando, per di più, sdegno e disprezzo per le condizioni dei meno fortunati.
Cominciai presto a piangere per me e per i cuori in ginocchio che elemosinavano amore e presenza, per la gente costretta a consumarsi nel proprio tormento, inascoltati, non visti, ignorati. Mi imbattei nell’assurdo e nella sua personificazione dalle cento facce e mille sfumature e dovetti imparare, maciullandomi il petto, che alle manifestazioni verbali di affetto quasi mai seguono azioni concrete di aiuto, vicinanza, supporto e che l’essere consanguinei con qualcuno, non mette al riparo da attacchi di vario tipo, che alla Messa della domenica molti si recano per fare due chiacchiere ed ostentare il vestito bello. Appresi con stupore che suore e preti, teoricamente portatori dei valori cristiani, di cristiano hanno ben poco e rappresentano, insieme alla classe politica, la maggior espressione di esseri che predicano tante cose carine senza darne il buon esempio.
Mi sentii sovente come la bella addormentata che d’improvviso si sveglia in un bosco di rovi e di spine, inizialmente convinta di trovarsi in un prato fiorito, nel quale inizia a raccogliere viole e tulipani, che viene colpita da una sorta di paralisi del pensiero e dell’anima nell’avvedersi che i fiori si sono trasformati in draghi.
Su questo pianeta falsità e corruzione la fanno da padrone; si inseguono successo, fama e denaro, sgomitando a più non posso per raggiungerne il godimento, usando i più biechi sistemi che non solo non prevedono amore e rispetto per l’altro, che è eventualmente in lizza con noi nella rincorsa al medesimo beneficio, ma sono spesso animati dal motto secondo il quale la “morte” altrui diventa l’unica possibilità di vita che abbiamo.
La soddisfazione dell’ego è ciò che spinge l’individuo ad agire nel quotidiano e per far questo, si tende a non guardare in faccia a nessuno, a pestare i piedi a chi capita, a rubare, a truffare, arrivando persino ad uccidere quando non si è riusciti in altro modo ad eliminare gli ostacoli incontrati per strada.
Ma io tutto questo non lo sapevo, perché non mi ha mai abitato dentro, perché tutt’altro scorre nelle mie vene, perché ho sempre anteposto le necessità altrui alle mie e nei miei sogni di bambina, vagheggiavo un mondo d’amore e reciproco sostegno.
Tu invece sapevi, mamma, che avrei incontrato sparute stelle nel mio cammino e che pochi soli mi avrebbero riscaldato, che immani tempeste di neve mi avrebbero travolta e che avrei fatto fatica a rimanere a galla, che le viscere della terra mi avrebbero inghiottito e le sabbie mobili paralizzato. Il tuo sguardo, quel giorno, andava oltre le parole… Se fossi stata in grado di leggerlo e se avessi avuto voglia di farlo, vi avrei letto il mio destino, ma anche il tuo impulso a fermarmi dall’andare per evitarmi tutto il brutto che avrei vissuto, quella spinta dell’anima che tenesti a freno per non tarpare le mie ali ed impedirmi il volo.
Se solo potessi tornare a quel momento, ti chiederei di trattenermi…
“T’imploro, mamma… non lasciare che recidano i fiori.”
Selvaggia
Fonte: https://pensieriselvaggi.wordpress.com/2015/02/28/ti-imploromamma/
Stupendo racconto tale e quale a ciò che può succedere e è successo, complimenti grandissimi per averlo messo. Il racconto di selvaggia, stupendo nome e racconto, bravissima
Bellissimo racconto di autoanalisi retrospettiva, eppure una madre dovrebbe evitare di perpetuare la realtà della Matrix terrena.