Vincere le tre paure dell’uomo moderno: morte, povertà, solitudine
di Francesco Lamendola
L’uomo moderno è attanagliato da tre grandi paure: la paura della morte, la paura della povertà, la paura della solitudine. Quasi tutte le sue angosce, quasi tutte le sue nevrosi, quasi tutti i suoi comportamenti irrazionali e distruttivi sono riconducibili ad esse.
Si dirà: ma l’uomo ha sempre avuto paura di queste tre cose, sempre, in tutte le epoche e sotto ogni cielo. In realtà, non è vero, o meglio… ne ha avuto timore, ma non fino al punto da perderci la testa; non fino al punto da permettere loro di condizionare tutta la sua vita, i suoi pensieri, i suoi atti.
Solamente l’uomo moderno ha concesso loro un potere così grande; solamente l’uomo moderno ne è divenuto totalmente schiavo. Gli uomini pre-moderni – ce lo attestano l’antropologia e l’etnologia comparate, la letteratura, la storia dell’arte, la storia delle religioni, la storia della filosofia – se pure nutrivano un certo timore di questi aspetti, non se ne lasciavano però condizionare così intimamente, così radicalmente.
Paura della morte?
Per essi, non occorreva possedere la forza morale e la cultura di Socrate o di Boezio, per guardare in faccia la vecchia signora senza tremare, senza impallidire, a ciglia asciutte, padroni di se stessi: poiché si accettava la condizione mortale dell’uomo, si accettava anche la morte. Quanti avevano anche una fede di tipo spirituale, pensavano che la morte del corpo fosse l’inizio della vita vera; gli altri, staccavano le labbra dalla tazza, paghi di quanto avevano bevuto.
Il terrore della morte è figlio della non accettazione della mortalità della natura umana; è figlio della non accettazione della condizione creaturale. Solo a partire da quando l’uomo ha cominciato a sentirsi un Dio, dunque con l’avvento della modernità, il morso velenoso della morte lo ha segnato nel profondo. La paura è l’effetto di un rifiuto davanti all’inevitabile.
Chi ha paura della morte, in cuor suo, sente di non aver vissuto bene. Sente che ogni giorno, ogni ora sta vivendo fuori se stesso, inseguendo cose superflue e trascurando l’essenziale; sente che sta commettendo un continuo delitto contro la vita, contro il dono inestimabile che essa rappresenta; e pensa, più o meno vagamente, che domani comincerà a pensare davvero alla sua vita, che domani prenderà le cose con la dovuta serietà, che si farà carico di vivere in prima persona e non delegando ad altri la propria responsabilità; che, da domani, non se la prenderà con la sfortuna per le cose che non vanno, né rimanderà oltre quel che andrebbe fatto per ritornare al centro di se stesso. Ma quel domani non arriva mai, viene perennemente rinviato; e frattanto cresce il senso di colpa, cresce il rimorso per un tale sperpero di vita, per una tale dissipazione di autenticità.
È da ciò che trae origine il terrore della morte: dalla cattiva coscienza di una vita inautentica, che sempre elude il proprio dovere verso se stessa e che sempre tradisce la propria serietà, inseguendo miraggi di felicità che la disorientano, la confondono, la prosciugano, senza recarle né pace, né bene, né armonia. Vive con pienezza la propria vita, colui che considera ogni giorno, ogni ora, come un dono; che li vive con intensità e con tranquilla coscienza, come la persona onesta e scrupolosa che non lascia debiti dietro di sé, né creditori impazienti, e che in qualunque momento è pronta a prendere il bastone e la bisaccia e a partire per un lungo viaggio.
Non ha paura della morte chi è se stesso, chi non vive con delle maschere sul viso, chi non porta avanti progetti obliqui, dominato da ambizioni smisurate e inconfessabili, servendosi di qualunque mezzo per aprirsi la strada; ma chi sa di non aver meritato l’odio di nessuno, il rancore di nessuno, tranne forse di quelle anime oscure che odiano la verità e la giustizia e che serbano rancore per essere state smascherate nei loro disegni perversi.
Paura della povertà?
Certo… ma solo a partire da quando il mito del benessere si è insediato da signore nelle nostre coscienze e nelle nostre menti; a partire da quando la povertà è diventata un motivo di vergogna, di esclusione sociale. Fino a quando la povertà è un fenomeno diffuso e condiviso, nessuno se ne vergogna. Povertà non è sinonimo di miseria: quest’ultima è degradante, anche per i suoi effetti morali; la povertà invece, può essere fiera e dignitosa.
Gli Spartani erano un popolo povero; anche i Romani dei primi secoli lo erano. L’uomo medievale era povero e non se ne vergognava; anzi, vedeva nella povertà umana un simbolo della divina povertà di Cristo, e nel povero una compiuta imitazione del Suo esempio. San Francesco, il ricco che aveva scelto di farsi povero e di vivere al servizio dei poveri, era il perfetto tipo umano, il tipo ideale. Certo non tutti possedevano la forza di imitare San Francesco che abbracciava e baciava i lebbrosi, ma tutti erano capaci di ammirarlo e di intuirne la sublime grandezza; oggi, i più lo riterrebbero un matto.
È solo con l’avvento dell’economia capitalista, che la povertà incomincia a diventare socialmente vergognosa e moralmente riprovevole: la si associa, invero arbitrariamente, alla pigrizia, al rifiuto del lavoro, mentre è noto che si può essere laboriosi e, tuttavia, poveri. Ma solo con l’avvento della moderna economia mercantile, solo con l’avvento della civiltà comunale, il lavoro diventa sinonimo di benessere e la povertà, sinonimo di pigrizia. Da quel momento, il poverello di Cristo, il viandante, il pellegrino, l’eremita, non sono più figure bene accette nella società dominata dal dio denaro: sono figure sgradevoli, o imbarazzanti, o addirittura pericolose, che si cerca di mettere ai margini e perfino di eliminare.
La povertà è la mancanza del superfluo e il povero è colui che vive dell’essenziale. Pertanto, il povero è più vicino a ciò che nella vita è essenziale: non avendo la preoccupazione di correre dietro al superfluo, può costruire la propria esistenza su di un progetto che tiene sempre presenti le cose essenziali: gli affetti, la famiglia, l’onestà, il lavoro, Dio. Il povero è come un viandante che si è sbarazzato dei fardelli inutili e che procede sulle strade polverose con passo spedito e con piglio deciso, reso leggero dalla sua stessa indigenza. Sobrio, tenace, è un ottimo combattente nelle battaglie della vita. Non si scoraggia alla prima difficoltà, non si smarrisce al primo insuccesso; se cade, si rialza; se non ce la fa più, chiede l’aiuto di Dio.
Ma l’uomo moderno ha paura della povertà e, più ancora, della maledizione sociale ad essa legata. L’imprenditore la cui azienda va in fallimento, preferisce il suicidio alla povertà; l’operaio che stenta ad arrivare alla fine del mese, spende una cifra sproporzionata per acquistare al proprio figlio, che va in prima elementare, uno zainetto firmato, simile a quello del figlio del ricco: tale è lo smisurato potere esercitato dalla ferrea dittatura dell’avere. Non conta quel che si è, conta quel che si possiede; e, se si possiede poco, bisogna almeno far finta di possedere molto. È una finzione, ma una finzione senza la quale non si avrebbe il coraggio di continuare a vivere, il coraggio di mostrarsi per quel che si è: neppure agli amici, ai figli, alla moglie.
Paura della solitudine?
No, l’uomo pre-moderno non la temeva, perché la vita gli riempiva a sufficienza l’esistenza, con i suoi ritmi naturali, con i suoi quotidiani contatti sociali. Nei villaggi rurali non si era mai soli: si è soli, invece, nelle grandi città moderne. E più grande è la città, più grande il grattacielo, più grande la villa con giardino e piscina, più si sente il peso della solitudine.
La solitudine è una malattia moderna, che nasce dall’individualismo esasperato, dall’egoistica corsa al successo, dalla competizione sfrenata di tutti contro tutti. Si è soli, quando intorno a sé non si hanno più dei simili, ma solo e unicamente dei potenziali antagonisti. Si è soli, quando il rumore delle cose inutili non basta a riempire il silenzio dell’anima.
Ecco perché gli uomini moderni, appena rientrati a casa dopo una giornata faticosa, stressante, per prima cosa accendono la radio o la televisione: sono come dei drogati, non possono vivere senza quantità sempre più grandi di rumori superflui, di voci inutili. Non sono capaci di stare soli con se stessi nemmeno per qualche ora, per qualche minuto: perché non sono in pace con se stessi, non sono in armonia con se stessi, non si vogliono bene, non si ascoltano e non si comprendono. Sono continuamente fuori centro, continuamente protesi verso l’esterno: ma chi non è in pace con se stesso, non può esserlo nemmeno con gli altri. Né con l’ambiente. Né con Dio. È in guerra contro tutto e contro tutti, ogni giorno, ogni ora, senza tregua né respiro, mai.
L’uomo moderno ha paura, anzi terrore della morte, della povertà e della solitudine, perché non accetta la propria condizione creaturale, la propria fragilità, la propria finitezza ontologica. Vorrebbe essere simile a un dio, perché gli dei non sono soggetti alla morte, non sono indigenti, non soffrono di solitudine; sono eternamente beati.
Anche l’uomo moderno vorrebbe essere eternamente beato. La cultura illuminista, della quale è figlio, gli ha instillato il pensiero che la felicità è un suo diritto e che egli può raggiungerla adoperando la ragione, ossia liberandosi da tutte le sciocche e dannose superstizioni del passato, dai miti, dalle tradizioni, dalle religioni, dalle credenze irrazionali; ma la sua idea di razionalità è angusta e presuntuosa, coincide con una assolutizzazione della scienza materialista: è un nuovo credo religioso, ma capovolto e assai più intollerante di quello che pretende di sostituire.
«I want to be happy», voglio essere felice: è la bandiera sotto la quale marciano in ranghi serrati, al suono dei pifferi e al rullo dei tamburi, le folle della modernità; e pochi, molto pochi sembrano domandarsi come mai questa promessa felicità sia sempre dietro l’angolo, sia sempre un po’ oltre tutti i loro sforzi, tutte le loro aspettative. I più ritengono che sia solo questione di tempo, che basti ancora un ultimo sforzo, che la prossima generazione, senza fallo, non dovrà temere più né la morte, né la povertà, né la solitudine, e che il regno della felicità verrà instaurato vittoriosamente sulla terra.
Ma non è così. Il regno della felicità non è dietro l’angolo; o se lo è, lo è come conquista della singola persona, non come retaggio della filosofia dei lumi, o della scienza, o della tecnica. Lo è come risultato di un percorso individuale, fatto di umiltà e coraggio; come punto d’arrivo di un cammino che ha rinunciato alle ingannevoli promesse della cultura materialista e che ha imparato a comandare sopra le proprie brame disordinate.
Dovremmo imparare dai nostri nonni e da tutte quelle culture che non erano dominate dalla triplice paura della morte, della povertà e della solitudine. Non occorre essere dei samurai, meno ancora dei kamikaze, per non lasciarsi dominare dalla paura della morte: è sufficiente la coscienza di una vita ben spesa, amando e non odiando, costruendo e non distruggendo, perdonando e non serbando rancore.
Non occorre essere dei santi, come Francesco d’Assisi, per guardare alla povertà non come a una odiosa nemica, ma come a una sposa degna d’essere amata: basta sapersi staccare dal dominio tirannico dell’avere, dal ricatto permanente dell’apparire. E non è necessario andare a vivere in un eremo o in un monastero di clausura, per mostrare di non aver paura della solitudine: è sufficiente l’abitudine al raccoglimento, alla meditazione, al silenzio; è sufficiente saper ascoltare le voci che ci parlano nel silenzio, specialmente quella del Maestro interiore.
Quando sapremo vedere nella morte una “sorella” che ci viene incontro per dare sollievo alle nostre membra affaticate dal lungo cammino; nella povertà una sposa che ci aiuta a riscoprire le cose importanti, le cose essenziali, liberandoci dalle illusorie apparenze; quando saremo capaci di vedere nella solitudine un’amica preziosa, che ci aiuta a ritrovare la parte più vera di noi stessi, a ritrovare il profumo e il sapore della vita autentica: allora troveremo la pace; perché chi è libero dalla paura, è nella pace.
Chi è nella pace, non si turba e non si spaventa al primo soffio di vento: anche se soffre, anche se è povero, anche se è solo. Essere nella pace, infatti, non vuol dire non soffrire più: il malato soffre, colui che ha perso la persona amata soffre, e soffre chi è oppresso da preoccupazioni; però tutti costoro possono dare un significato diverso alla loro tribolazione.
Non è la sofferenza che va fuggita, ma la sofferenza sterile, disperata, che incattivisce, inaridisce, disumanizza. Si può portare la propria croce anche con un senso di pace. Ed è questo che si riesce a fare, quando ci si è liberati alla paura…
Articolo di Francesco Lamendola
Fonte: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45253
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