La “Montagna della Morte”, più di 60 anni di misteri
di Enrico Baccarini
Più di 60 anni fa, la zona settentrionale degli Urali in Russia, fu teatro di uno dei più strani e tragici misteri irrisolti dell’epoca moderna. Un mistero senza tempo che, a distanza di 61 anni, rimane ancora un cold case senza una soluzione.
La storia che ci appresteremo a raccontare sembra collocarsi nelle comuni, quanto drammatiche, tragedie alpinistiche che la cronaca ci ha abituato a leggere durante i periodi invernali. Nove sciatori morti durante una traversata certamente non facile, con temperature vicine ai -30° C e con situazioni climatiche estreme.
Questi, in sintesi, gli eventi che coinvolsero un gruppo di nove ragazzi nel lontano 1959 sui monti Urali. È stato possibile ricostruire lo svolgersi del loro viaggio grazie ai diari e ai rullini fotografici che furono ritrovati dal team di recupero dopo gli eventi che andremo a descrivere.
Vogliamo convergere la nostra attenzione direttamente sui fatti in oggetto, laddove buona parte del viaggio si era svolta in situazioni abbastanza normali fino al suo epilogo drammatico. La notte del 2 febbraio 1959, gli eventi avrebbero invece assunto una più che tragica piega, quando “qualcosa” di non ancora identificato e comprensibile, che risulta ancora oggi fuori da ogni logica e del tutto agghiacciante, portò alla morte di tutti i ragazzi che componevano la spedizione.
I membri del gruppo senza nessuna spiegazione apparente, squarciarono la loro tenda dall’interno, seminudi e con una temperatura esterna vicina ai -30° C, iniziando a correre e a vagare senza meta nella tundra. Tre settimane dopo, vennero ritrovati cinque corpi lungo un pendio a qualche centinaio di metri dal campo base. Passarono altri due mesi per ritrovare gli altri quattro dispersi, che portavano addosso alcuni degli abiti appartenuti ai primi cinque corpi ritrovati. Tra le numerose anomalie evidenziate, alcuni dei vestiti indossati dai ragazzi possedevano alti livelli di radiazioni.
Quando i corpi furono analizzati sul tavolo autoptico, vennero riscontrati gravi traumi interni, tra cui fratture al cranio e alle costole, senza però che fosse identificabile alcun segno di aggressione o lesioni esterne. Il caso fu chiuso velocemente e l’intera area in cui erano morti i ragazzi della spedizione fu chiusa al pubblico, dall’allora KGB per alcuni anni.
Il gruppo era composto da studenti e laureati della Ural State Technical University, tutti esperti in spedizioni in aree selvagge. Il viaggio, organizzato dal ventitreenne Igor Dyatlov, aveva lo scopo di esplorare le pendici del monte Otorten, nella parte settentrionale della catena degli Urali e iniziò il 28 gennaio 1959. Yuri Yudin, l’unico sopravvissuto, riuscì a salvarsi la vita perché si ammalò prima che la spedizione raggiungesse le zone più isolate e ripercorse quindi in solitaria la via del ritorno verso il campo di partenza. Gli altri nove membri del gruppo proseguirono e, da quello che si evince dalle fotografie sviluppate dai rullini recuperati dagli investigatori, la squadra di Dyatlov si accampò nelle prime ore della sera del 2 febbraio sulle pendici di una montagna vicino al Monte Ortoten.
La tribù locale dei Mansi chiama quella montagna, Kholat Syakhl, letteralmente la “Montagna della Morte”. Le analisi condotte nei decenni, hanno messo in evidenza come la stessa decisione di accamparsi in una radura aperta e soggetta alle intemperie avesse poco senso, il gruppo si trovava infatti a circa un chilometro e mezzo dal confine del bosco dove avrebbe potuto trovare rifugio dalle condizioni climatiche estreme.
Quando arrivarono nel loro ultimo campo base era ancora giorno e non si era manifestata la necessità di allestire velocemente un riparo per l’incedere della notte. Non sono mancate, infatti, negli anni le ipotesi che hanno, in un certo qual modo, dimostrato che il “vero” campo base fosse in un punto limitrofo e non in quello in cui fu rinvenuta la tenda. “Dyatlov probabilmente non voleva scendere più in basso o aveva deciso di fare pratica nell’accamparsi sui pendii di montagna”, ha raccontato Yuri Yudin al St. Petersburg Times nel 2008.
Quell’accampamento fu l’ultimo della spedizione. Dyatlov avrebbe dovuto contattare il 12 febbraio i suoi referenti all’Università per rassicurarli che tutti stessero bene e che la spedizione era al suo termine ma nessun contatto fu stabilito in quella data. L’allarme venne lanciato il 20 febbraio e l’accampamento venne ritrovato dalle squadre di soccorso solo il 26 febbraio.
Quando gli investigatori raggiunsero il luogo, notarono un fatto alquanto anomalo quanto senza spiegazione: la tenda era squarciata dall’interno e al suo esterno erano ancora visibili (e ghiacciate) le impronte di otto o nove persone che si erano allontanate verso il limite superiore del bosco. Le scarpe e l’attrezzatura erano state abbandonate dentro la tenda e le impronte erano quelle di piedi nudi con solo indosso le calze che ad una temperatura di -30° C si erano direzionate verso una via di salvezza.
Ma da cosa? Come detto la tenda era stata squarciata dall’interno per creare una via di fuga veloce, probabilmente l’entrata principale era inutilizzabile per un motivo che non sapremo mai (analisi sulla struttura ritrovata dai soccorritori non hanno identificato nessuna tipologia di problemi, l’unica spiegazione è che vi fosse “qualcosa” o “qualcuno” con cui il gruppo non voleva entrare in contatto).
I primi due corpi vennero ritrovati presso il limite del bosco sotto un pino gigante. Come accennato, il bosco distava circa un chilometro e mezzo dal campo. Il team di recupero annotò che le impronte però sparivano a circa un terzo del percorso. Entrambi i cadaveri indossavano solo biancheria intima ed erano scalzi. Secondo i rapporti ufficiali, i rami dell’albero prospiciente erano rotti, suggerendo che i due malcapitati avessero tentato di arrampicarvisi, forse per improvvisare un fuoco o costruire un riparo di fortuna.
Altri tre corpi, tra cui quello di Dyatlov (foto sopra), furono rinvenuti nella zona tra l’accampamento e l’albero, e dalla loro posizione sembrava stessero ritornando verso il campo base. Uno di loro, Rustem Slobodin, aveva il cranio fratturato, per quanto la lesione non fosse mortale. L’indagine medica decretò la morte per ipotermia e il rapporto fu chiuso velocemente.
Passarono altri due mesi prima che gli altri quattro corpi fossero rinvenuti in un burrone sotto circa tre metri e mezzo di neve, poche decine di metri più in basso dell’albero. Fu la scoperta più agghiacciante. Tutti erano morti per traumi violenti, ma mancavano totalmente dei segni o ferite esterne. Nicolas Thibeaux-Brignolle aveva il cranio fratturato, Alexander Zolotariov e Ludmila Dubinina avevano le costole rotte e a quest’ultima mancavano anche la lingua e gli occhi.
Inizialmente si suppose che queste ultime ‘evidenze’ fossero dovute ad animali selvatici, ma l’esame autoptico escluse questa possibilità dimostrando come, quantomeno la lingua, fosse stata recisa di netto dal corpo di Ludmila per essere ritrovata successivamente nel suo stesso intestino…
Tra le ipotesi proposte, si disse che il gruppo fosse andato alla ricerca di aiuti, ma da cosa fuggivano? Perché squarciare precipitosamente la tenda e senza adeguati indumenti? Si sarebbero trovati nel mezzo del nulla più assoluto e certamente la foresta non avrebbe potuto fornire loro riparo o strumenti sufficienti per potersi proteggere da temperature così rigide. Come mai, poi, la lingua di Dubinina mancava? E mentre alcuni all’epoca ipotizzarono che gli esploratori fossero stato attaccati dagli uomini delle tribù dei Mansi, i medici legali dichiararono che i traumi rilevati necessitavano di una forza maggiore di quella di un essere umano per essere inflitti, soprattutto se si considera l’assenza totale di tracce esterne. “Le fratture erano della stessa portata di quelle causate da un incidente d’auto” dichiarò Boris Vozrozhdenny, uno dei medici che lavorò al caso, nei documenti a cui ha avuto accesso il Times.
La questione si complica ulteriormente. Gli ultimi quattro corpi ritrovati indossavano dei vestiti, a quanto pare avevano prelevato gli indumenti dagli altri cadaveri per cercare di sopravvivere. Zolotariov indossava il cappotto e il cappello della Dubinina, mentre lei a sua volta aveva avvolto attorno ad un piede un pezzo dei pantaloni di lana di uno dei corpi ritrovati sotto al pino. Tanto per complicare la questione, vennero rilevate tracce di radioattività sui loro abiti.
Sono state fatte molte ipotesi su cosa sia successo a questo gruppo di esperti sciatori e nessuna sembra, ad oggi, avere prodotto risultati soddisfacenti. La verità è che nemmeno le indagini, concluse ufficialmente nel maggio dello stesso anno approdarono a una spiegazione. L’esito finale è quanto di più generico si possa immaginare: nessun colpevole, ma viene indicata alle origini delle morti una “irresistibile forza sconosciuta”.
Indubbiamente qualcosa terrorizzò il gruppo, al punto tale da farli letteralmente fuggire squarciando la tenda. Parallelamente sono stati chiamati in causa tanto gli UFO quanto lo Yeti siberiano, ma l’ipotesi più verosimile è che i ragazzi si fossero trovati nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.
Nel caso della “spiegazione ufologica” viene chiamata in causa l’ultima foto del rullino di Dyatlov, in cui si vede stagliata nel cielo una sagoma indistinta di un oggetto luminoso nel cielo vicino alla tenda. Sappiamo da un gruppo di escursionisti che si trovava poco distante dal gruppo, che nei cieli furono osservate una serie di sfere arancioni. Il dettaglio fu confermato in quei mesi anche da avvistamenti analoghi fatti dal servizio meteorologico e da membri dell’esercito. Nel corso degli anni si scoprì però che queste “palle arancioni” non erano altro che il lancio di missili balistici R-7.
Quando poi negli anni Novanta ad alcuni fascicoli del caso Dyatlov furono tolti i sigilli, emersero nuovi particolari che portarono ad ipotizzare che le morti dei nove ragazzi fossero state causate dalla sperimentazione di un’arma segreta sovietica. Questo potrebbe giustificare la radioattività riscontrata in alcuni corpi. Come dicevano, un altro gruppo di studenti si era accampato a circa 48 chilometri dal gruppo Dyatlov e aveva riportato simili avvistamenti nello stesso periodo.
In una testimonianza scritta, uno di loro dichiarò di aver visto “… un corpo circolare luminoso volare sopra al villaggio da sud-ovest verso nord-est. Il disco aveva praticamente le dimensioni della Luna piena ed emanava una luce bianco-blu circondata da un alone blu. L’alone lampeggiava in maniera simile ai lampi osservati da lontano. Quando l’oggetto circolare scomparve oltre l’orizzonte, il cielo rimase illuminato per qualche minuto in quella stessa direzione”.
La tesi dello “Yeti russo”, sembra aver trovato una spiegazione abbastanza velocemente. Qui sotto potete vedere la foto del presunto Yeti.
Da una attenta analisi, tuttavia, si può però riscontrare come l’essere fotografato possa verosimilmente essere in realtà un membro della spedizione che si era allontanato per espletare dei bisogni personali e fisiologici. La qual cosa non sarebbe inverosimile, visto poi che nei diari del gruppo non è stata trovata nessuna traccia di questo misterioso “incontro”.
Parallelamente è stata ipotizzata una spiegazione per comprendere come mai il gruppo si mosse semi nudo e con una temperatura di -30° C nella neve e probabilmente sotto una tormenta. Se accantoniamo per un attimo l’ipotesi (comunque oltremodo verosimile viste le condizioni della tenda) che il gruppo fosse stato terrorizzato da qualcosa nelle sue vicinanze, nei casi di ipotermia è noto un fenomeno definito “undressing paradossale” (spogliamento paradossale) in cui, durante uno stato di delirio ipotermico, il corpo nel tentativo di non morire congelato, attua un processo fisiologico in cui tutte le energie dell’organismo sono direzionate alla sua salvaguardia e sopravvivenza. Il soggetto, quindi, si troverà (in qualsiasi condizione di freddo si trovi) a provare un enorme calore, che lo porterà a spogliarsi. Sono molti i casi documentati a riguardo e tale spiegazione potrebbe comunque farci comprendere un po’ meglio le condizioni in cui furono trovati alcuni corpi. Ogni spiegazione sembra plausibile ma, come avrete letto, nessuna è stata risolutiva per comprendere il caso!
Nel caso degli indumenti radioattivi, il primo ad identificare questa curiosa anomalia fu il principale investigatore che seguì la vicenda, Lev Ivanov. Fin da subito dichiarò che il suo contatore Geiger era impazzito nei pressi dell’accampamento. Rivelò anche che i funzionari sovietici gli chiesero di chiudere il caso, nonostante le segnalazioni del febbraio e del marzo del 1959 richiamassero ancora una volta in causa “sfere volanti luminose” nella zona. “All’epoca sospettavo e ora sono quasi sicuro che quegli oggetti avessero una connessione diretta con le morti degli esploratori”, ha detto Ivanov al giornale kazako Leninsky Put, in un’intervista scovata dal Times.
Ai funerali alcuni testimoni asserirono che i corpi sembravano “molto abbronzati”. Tra questi il dodicenne Yuri Kuntsevich, che in seguito diventò il capo della “Fondazione Dyatlov” di Ekaterinburg, partecipò al funerale di cinque degli escursionisti e ricordò che la loro pelle aveva “un’abbronzatura color bruno intenso”.Questo evento potrebbe avere due spiegazioni possibili. La prima che l’ipotermia, unita al decesso, avessero portato ad un naturale processo di denaturazione del derma sui cadaveri, dovuto ai processi di decomposizione. In secondo luogo, e stante le radiazioni riscontrate, alcuni individui potrebbero essere stati sottoposti a forti radiazioni che hanno indotto questa colorazione scura.
Alcuni resoconti ufficiali dell’epoca, suggeriscono che nella zona furono trovati molti rottami in metallo, il che porta a sospettare che l’esercito avesse utilizzato l’area per manovre segrete e potesse essere stato interessato ad un insabbiamento della questione. La psicosi però non è uno degli effetti noti causati dall’esposizione acuta alle radiazioni, e non giustificherebbe la fuga degli escursionisti semi nudi e lo squarcio nella tenda. Parallelamente non sono stati riscontrati crateri da impatto di nessun tipo in tutta l’area.
In preda al panico puro, gli sciatori lasciarono la tenda senza abiti, né scarpe, ma essendo sciatori esperti, avrebbero dovuto essere pienamente consapevoli che non sarebbero sopravvissuti a lungo nelle lande gelide senza nessuna protezione. Questo indica che la squadra doveva essere convinta che stavano affrontando un pericolo mortale e che avevano scelto di fuggire nel tentativo di salvarsi la vita. Al momento, ciò che resta è la laconica conclusione dell’indagine, che indica l’evento come causato da una “irresistibile forza sconosciuta”.
Si è trattato di un incidente o di un’insabbiatura? O di cos’altro? Probabilmente non lo sapremo mai e la mancanza di risposte esaurienti da parte dell’inchiesta, ha reso questo caso uno degli eventi più drammatici e inspiegabili degli ultimi decenni.
Articolo di Enrico Baccarini
Fonte: http://www.enricobaccarini.com/russia-lincidente-del-passo-dyatlov-58-anni-di-misteri/
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