di Flavio Ferraro
“La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo?… Noi siamo stanchi dell’uomo…”, scriveva Nietzsche nell’estate del 1887, in una delle sue opere capitali, “Genealogia della morale”.
Queste parole sono oggi più attuali che mai, e ci risuonano fin troppo familiari: si presentano a noi – uomini del ventunesimo secolo – come un ospite atteso e conosciuto. Non è forse la stanchezza il sentimento dominante del nostro tempo? Oggi siamo attanagliati dalla stanchezza: anche il semplice pensare è divenuto tedioso per chi non vede più l’orizzonte innanzi a sé, per chi non sa più cosa sia lo slancio e la vertigine.
L’orizzonte si va riducendo, fino a scomparire: oltre lo spazio del nostro vivere quotidiano non vediamo nulla. Viviamo in un presente che si ripete uguale; il flusso di immagini che ci circonda varia ad ogni istante − simile a una fantasmagoria − ma in fondo ripete un unico, ossessivo leitmotiv: non ci sono alternative, questa è l’unica realtà, da qui non si esce. È questa la ragione per cui in Occidente non si generano più figli: non si crede nella vita, non si spera nel futuro − il futuro non esiste, è scomparso. Vi è solo un’attualità permanente, con le sue previsioni statistiche, le sue cifre, i suoi bollettini. Viviamo in un mondo spettrale, sempre più dematerializzato, saturo di segni ma vuoto di significati: si guarda per non vedere, si parla per non dire. Questa stanchezza assume naturalmente anche il tono della disperazione, perché un’umanità che non crede più a nulla non è in grado di sperare: la disperazione paralizza l’immaginazione, e ci impedisce di concepire una realtà diversa…
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