Come educare bambini felici e non oppositivi
di Jean Liedloff
“Sembra che molti genitori di bambini piccoli, nell’ansia di non voler essere negligenti né irrispettosi verso i propri figli, esagerino nel verso opposto”. (Jean Liedloff)
Ci è voluto del tempo prima che il senso di ciò che osservavo, si facesse strada nella mia mente “civilizzata”. Avevo trascorso più di due anni nella giungla del Sud America, vivendo a contatto con Indiani dell’età della pietra. I maschietti viaggiavano con noi quando ingaggiavamo i padri come equipaggio e guide, inoltre restavamo spesso giorni o settimane nei villaggi degli indiani Yequana, dove i bambini giocavano tutto il giorno senza la supervisione di adulti o adolescenti.
Solo dopo la quarta delle mie cinque spedizioni, mi colpì il fatto che non avessi mai assistito a un conflitto fra bambini o fra adulti e bambini. Non solo i bambini non si colpivano a vicenda, ma neppure litigavano. Obbedivano agli adulti all’istante e con gioia, e spesso tenevano in braccio i più piccoli mentre giocavano o aiutavano nel lavoro.
Dov’erano le intemperanze dei “terribili due anni”? I capricci, i pianti, le lotte per “fare a modo loro”, l’egoismo, la distruttività e lo sprezzo per la propria incolumità che riteniamo la norma? Che fine avevano fatto le lamentele continue, la disciplina, i “confini” necessari ad arginare gli atteggiamenti oppositivi? Dov’era finita la relazione conflittuale che diamo per scontata fra un genitore e un figlio? E il biasimo, le punizioni o, ancora, perché non c’era traccia di permissivismo?
La “maniera degli Yequana”
Esiste un’espressione Yequana che sta più o meno per “Sono ragazzi!” che ha una connotazione positiva e si riferisce agli entusiasmi dei ragazzi maschi quando corrono, gridano eccitati, nuotano nel fiume o giocano a una sorta di badminton Yequana (un gioco non competitivo, in cui tutti i giocatori cercano di tenere in aria il più possibile un volano fatto di foglie di granturco, colpendolo con le mani aperte).
Ho sentito molte grida e risate quando i ragazzi giocavano all’aperto, tuttavia, quando erano all’interno delle capanne abbassavano la voce per mantenere la quiete che vi regnava. Non interrompevano mai la conversazione degli adulti e in genere parlavano pochissimo in loro presenza, limitandosi ad ascoltare e a svolgere piccoli servizi, come distribuire il cibo o le bevande.
Ben lontani dall’essere disciplinati o repressi in comportamenti compiacenti, questi piccoli angeli erano rilassati e gioiosi. E crescendo diventavano adulti felici, sicuri di sé e collaborativi! Come ci riuscivano? Cosa sapevano gli Yequana a proposito della natura umana che a noi sfugge? Cosa possiamo fare per ottenere relazioni non oppositive con i nostri figli durante la prima infanzia e anche in seguito, se sono stati sviati da un inizio infelice?
L’esperienza “civilizzata”
Nella mia pratica professionale, le persone mi consultano per superare gli effetti deleteri di credenze su se stessi che si sono formate nell’infanzia(1). Molte di queste persone sono genitori, di norma ben intenzionati, desiderosi di non far subire ai figli il genere di alienazione che loro stessi hanno sofferto per mano dei genitori. Vorrebbero sapere come poter crescere dei bambini felici e senza traumi.
Molti di loro hanno accolto i miei consigli e, seguendo l’esempio degli Yequana, hanno tenuto i figli a stretto contatto fisico, giorno e notte, finché non hanno iniziato a gattonare (2). Alcuni restano sorpresi e sconcertati nello scoprire che i loro piccoli crescendo diventano “esigenti” o rabbiosi, spesso proprio nei confronti dei genitori tanto premurosi. Esagerare in dedizione e sacrifici non migliora la disposizione dei bambini. Anzi, sforzi sempre maggiori per placarli non fanno altro che amplificare la frustrazione sia nel genitore, che nel bambino.
Perché allora gli Yequana non avevano gli stessi problemi? La differenza cruciale è che gli Yequana non sono bambino-centrici. Possono di tanto in tanto strofinarsi col naso sui piccoli con affetto, giocare a bubu settete, cantare per loro, tuttavia, la maggior parte del tempo chi si occupa del bambino, presta attenzione ad altro… non al bambino! Anche i grandicelli che accudiscono i più piccoli la ritengono una non-attività e, sebbene li portino ovunque con sé, di rado prestano loro attenzione in modo diretto.
Così facendo, i bambini Yequana sono sempre al centro di tutte le attività, alle quali si uniranno col procedere della crescita, nei vari stadi del gattonare, camminare e parlare. La visione panoramica delle esperienze future che li attende, dei comportamenti, dei ritmi, del linguaggio, offre una base ricca alla loro partecipazione in divenire.
Giocare col bambino, parlargli, ammirarlo tutto il giorno, lo priva della fase in braccio in cui è un semplice spettatore, che lo fa sentire bene. Incapace di dire ciò di cui ha bisogno, si esprimerà allora attraverso il malumore, cercando di attirare l’attenzione dell’adulto… ed ecco la causa della comprensibile confusione. Il suo proposito è però quello di modificare l’esperienza di insoddisfazione, facendo sì che l’adulto si occupi delle proprie attività con sicurezza, senza mostrare di dover chiedere il permesso al bambino. Una volta risolta e corretta la situazione, il comportamento del bambino che cerca di attirare l’attenzione, sparirà. Lo stesso principio si applica poi agli stadi di crescita che seguono la fase in braccio.
Ricordo una madre della costa orientale che all’inizio delle sessioni telefoniche con me, si sentiva al limite della pazienza. Era in guerra con l’adorato figlio di tre anni, che spesso si intrometteva, a volte la picchiava e le gridava “stai zitta!” insieme ad altre espressioni di rabbia e mancato rispetto. Aveva tentato di ragionare con lui, chiedendogli cosa voleva che facesse, allettandolo, parlandogli con dolcezza finché poteva, prima di perdere la pazienza e urlargli contro.
Dopo si sentiva consumare dal senso di colpa e cercava di “rimediare” con scuse, spiegazioni, abbracci, o doni speciali che dimostrassero il suo amore, ma a quel punto il suo prezioso bambino rispondeva inscenando nuove pretese a suon di capricci e sfuriate. A volte, però, lei interrompeva i tentativi di compiacerlo e in silenzio si dedicava alle sue attività, nonostante le urla e le proteste. Se, infine, riusciva a tener duro abbastanza perché lui cedesse al tentativo di controllarla e si calmava, quando poi la fissava coi suoi begli occhi dolci, le diceva: “ti voglio bene mamma!”, lei, allora, quasi sottomessa dalla gratitudine per questo momentaneo sollievo dal fardello della colpa che nutriva in petto, tornava a mangiare di nuovo dalla sua manina paffuta e sporca di marmellata. Il bambino però a questo punto riprendeva il piglio pretenzioso di comando, diventando di nuovo sgarbato e rabbioso e l’intero scenario doloroso si ripeteva, acuendo la disperazione della mia cliente.
Ho ascoltato molte storie analoghe dai miei clienti negli Stati Uniti, Canada, Germania e Inghilterra, perciò credo sia giusto affermare che il problema sia prevalente fra i genitori della società occidentale, più istruiti e ben intenzionati. Lottano con figli che sembrano voler tenere gli adulti sotto controllo e obbedienti a ogni loro capriccio.
A peggiorare la situazione, molti credono che questo fenomeno avvalori la tesi molto diffusa secondo cui la nostra specie, unica fra tutte, sia per natura asociale e richieda anni di opposizione (“disciplina”, “socializzazione”) per dare buoni frutti. Come gli Yequana, anche i balinesi e numerosi altri popoli al di fuori della nostra orbita culturale, mostrano invece come una simile tesi sia del tutto errata. I membri di una società non fanno che rispondere ai condizionamenti della propria cultura, quale essa sia.
La strada verso l’armonia
Qual è, allora, la causa di tanta infelicità? Cosa abbiamo frainteso, noi occidentali della natura umana? E cosa possiamo fare per avvicinarci all’armonia che gli Yequana godono con i loro figli? Mi sembra che molti genitori di bambini piccoli, nell’ansia di non essere negligenti né irrispettosi, esagerino nel verso opposto. Come martiri si sono concentrati sui loro figli invece di dedicarsi alle proprie occupazioni da adulti, che i bambini potrebbero osservare, seguire, imitare e assistere, com’è nella loro tendenza naturale.
In altre parole, poiché un bambino piccolo vuole imparare ciò che fa la sua gente, si aspetta di poter concentrare la propria attenzione su un adulto che è intento alle proprie attività. Un adulto che interrompa qualsiasi cosa stia facendo, cercando di capire ciò che il figlio desidera, manda in cortocircuito tale aspettativa. Per non menzionare il fatto che l’adulto apparirà al bambino incapace di comportarsi, insicuro e, cosa ancor più allarmante, in cerca di una guida proprio nel proprio piccolo di due o tre anni, che si affida al genitore per la propria calma, competenza e sicurezza.
La reazione più probabile del bambino piccolo all’insicurezza genitoriale, è quella di spingere ancor più l’adulto fuori dagli equilibri, testando la possibilità che esista un terreno in cui il genitore si senta finalmente fermo e sicuro, alleviando l’ansia generata dal non sapere chi deve fare da guida. Potrebbe, ad esempio, continuare a disegnare sui muri, dopo che la madre lo ha pregato di smettere, con un tono che gli fa intendere quanto lei non creda che lui obbedirà. Quando poi gli avrà sottratto i colori, mostrandosi timorosa della sua possibile reazione di rabbia, lui – proprio perché è una creatura davvero sociale – asseconderà le aspettative della madre e si produrrà in urla furiose.
Se, interpretando male la sua rabbia, la madre cercherà ancor più di capire cosa vuole, pregandolo, spiegando e mostrandosi sempre più disperata di poterlo calmare, il bambino sarà costretto ad avanzare pretese ancor più oltraggiose e inaccettabili. E continuerà, finché la madre non saprà riprendere le redini della situazione e l’ordine verrà restaurato.
La madre passa ora dal punto in cui perde la pazienza a quello in cui il senso di colpa e i dubbi sulla propria competenza, risollevano le loro teste tremanti. Ciò nonostante, il bambino avrà la magra consolazione di vedere che quando le cose si fanno davvero difficili, lei lo solleva dal comando, placando il suo terrore di dover in qualche modo sapere ciò che deve fare la madre.
Detto in parole semplici, quando un bambino è costretto a tentare di controllare il comportamento di un adulto, non è perché vuole riuscirci, ma perché ha bisogno di essere certo che l’adulto sappia cosa sta facendo. Inoltre, il bambino non può smettere di “testare” le reazioni dell’adulto, fintanto che costui non mostri di essere fermo e sicuro e il bambino non ne abbia la certezza.
Nessun bambino si sognerebbe mai di strappare l’iniziativa all’adulto, a meno che non riceva il chiaro messaggio che una tale azione sia attesa: non voluta… ma attesa! E quando il bambino sente di aver ottenuto il controllo, diventa confuso e spaventato e farebbe qualsiasi cosa pur di indurre l’adulto a riprendersi il ruolo di guida che gli spetta.
Una volta che questo sia chiaro, il timore dei genitori di imporsi al bambino svanisce, e non è più necessario il contrasto. Se mantengono il controllo, soddisfano i bisogni del loro adorato figlio, anziché agire in opposizione ad esso.
Alla mia cliente della costa orientale, le ci vollero una o due settimane per vedere i primi risultati legati a questa nuova consapevolezza. Dopodiché, generazioni di fraintendimenti e la forza delle vecchie abitudini, resero non proprio facile la transizione familiare verso una modalità non avversativa. Oggi, lei e il marito (e molti miei altri clienti) sono convinti che i bambini, ben lungi dall’essere oppositivi, siano per natura profondamente sociali.
Aspettarsi che lo siano, è ciò che permette loro di esserlo. Non appena le attese dei genitori sulla socialità del figlio vengono percepite da lui, ecco che si realizzano; in modo analogo, nei genitori che sperimentano la socialità del bambino se ne rafforza l’aspettativa. Funziona così.
In una bella lettera inviatami dal marito della mia cliente della costa orientale, egli scriveva a proposito della moglie, del figlio e di se stesso: “Siamo cresciuti e abbiamo imparato, ci siamo amati l’un l’altro in modo miracoloso. Le nostre relazioni reciproche continuano a evolversi in una direzione positiva e piena d’amore“.
Articolo di Jean Liedloff (articolo apparso su “Mothering magazine”, 1994)
Sito originale in inglese: www.continuum-concept.org
Traduzione dall’inglese: Michela Orazzini
Fonte: http://www.bambinonaturale.it/2013/10/come-educare-bambini-felici-non-oppositivi/
Note:
(1) Jean Liedloff, Normal Neurotics Like Us, Mothering, no. 61 (Fall 1991): 32-27.
(2) Jean Liedloff, The Importance of the In-Arms Phase, Mothering, no. 50 (Winter 1989): 16-19.
Commenti
Come educare bambini felici e non oppositivi — Nessun commento