Quando la Normalità diventa Anormale: il Caso dei “Normotici”
di Marta Rebecca Farsi
Una dimensione di vita banale e prosaica, “anormalmente normale”: persone troppo stabili, sicure, tranquille ed educate.
Nei soggetti normotici l’esigenza primaria è volta a mantenere un pedissequo conformismo, annullando nella troppa normalità il Sé individuale. È questo il nucleo patologico del normotico: non riuscire a distaccarsi da un eccesso di normalità con il quale contamina ogni aspetto della sua esistenza.
La credenza collettiva associa al concetto di normalità un’accezione prettamente positiva, identificando in essa caratteristiche affini al benessere, alla tranquillità, al buon vivere civile. È normale ciò che è giusto, socialmente adeguato, conforme alla legge e alla prassi consolidata. Alla normalità si accompagna un senso di sicurezza, che mette al riparo da sensi di colpa, minaccie ed estraneità, dovuto alla convinzione di aver compiuto il proprio dovere.
Di converso, allontanarsi da comportamenti collettivamente approvati costringe a confrontarsi con una dimensione non conosciuta e potenzialmente stigmatizzante. Conseguenza particolarmente critica, quest’ultima, soprattutto per certi individui che avvertono con intensità maggiore il bisogno di adeguarsi alle regole sociali, per non violare quell’accettabile livello di conformismo che li fa sentire parte di un gruppo.
Ma in certi casi l’adeguamento sociale può diventare un pensiero ossessivo, un dovere al quale non si può derogare, e non soltanto per una questione di buon vivere civile: essere e sentirsi normali si tramuta in una condizione indispensabile alla sopravvivenza. È il caso dei c.d. “normotici” (Bollas, 1989).
“Malati” di Normalità: Chi sono i “Normotici”
La psicologia considera patologico un eccesso di normalità. È Bollas, (1989) nel suo testo “L’ombra dell’oggetto”, a definire normotica una dimensione esistenziale in cui la normalità diventa l’espressione sintomatica di un disagio, data la connotazione di rigidità compulsiva con cui viene applicata. In un simile contesto, la normalità perde le proprie connotazioni funzionali e degenera in un fattore patologico tutt’altro che adattivo, risultando unicamente finalizzato all’elusione dell’identità individuale.
Nei soggetti normotici l’esigenza primaria è volta a mantenere un pedissequo conformismo, un’adesione ai canoni del comportamento sociale necessaria a sentirsi inseriti in una massa nella quale si identificano totalmente, annullando in essa il Sé individuale. Si verifica così un’abdicazione – totale ed egosintonica – del proprio nucleo identitario, che va a confluire in un coacervo indifferenziato in cui ogni elemento soggettivante perde valore e riconoscibilità, per venir sacrificato alla causa di un’omologazione indiscriminata (MacDougall, 1992).
Una persona normotica è “anormalmente normale”: troppo stabile, sicura, tranquilla ed educata. Sempre di buon umore, senza passioni particolari, equilibrata perché priva di emozioni e attenta ai soli aspetti materiali dell’esistenza. Agli oggetti, che colleziona in una routine rassicurante proprio perché inflessibile. Immutabile. Sempre uguale e sé stessa.
Il normotico si immerge inconsapevolmente in una dimensione di vita banale e prosaica, improntata all’agire più che al fare, al compiere più che all’elaborare, all’imitare più che al creare (Bollas,1989; Mac Dougall, 1992).
Giovacchini (1972) parla a ragione di Sé vuoti, personalità organizzatrici in grado soltanto di raccogliere, enumerare, collezionare dati di fatto. Egli non crea comportamenti, piuttosto li imita. Non decide, non crea, non agisce. Più che vivere esegue la vita, muovendosi all’interno di scenari stereotipati costruiti ad hoc, sulla base di esperienze che si limita a mutuare dagli altri, in una volontà emulativa dietro la quale cela una nudità di intenti e di pulsioni.
Tutto è programmato, tutto è meccanizzato nella sua condizione vitale: all’inizio di ogni giornata sa esattamente cosa mangerà, come si vestirà, quali acquisti effettuerà, nel timore di andare incontro ad una perdita di controllo che potrebbe destabilizzarlo. Le sue condotte non si discostano, in contenuti e orientamenti, da quelle della collettività: lavorare, sposarsi, fare figli, ma anche semplicemente fare acquisti o andare in vacanza, sono azioni che compie sotto l’influenza di una richiesta sociale cui si adegua adesivamente, in ottemperanza ad un istinto di emulazione che lo invade senza riserve.
Vivendo sulla scia delle opinioni e delle azioni altrui, egli costruisce un modello comportamentale parassitario che attinge passivamente da ciò che la maggioranza ha compiuto prima di lui. È il comportamento degli altri a designare l’andamento del proprio, così da rendere ogni sua decisione, anche apparentemente riflettuta, la mera replica di abitudini socialmente consolidate. Per questo non matura opinioni o punti di vista autonomi, preferendo utilizzare frasi fatte, espressioni di convenienza, luoghi comuni condivisi dalla massa, dai quali è sicuro di ricevere facile approvazione.
Egli rifugge il pensiero, la vita onirica, la dimensione emotiva e persino le pulsioni aggressive – non si arrabbia facilmente – lasciandosi inghiottire in un vortice di ovvietà privo di stimoli.
Per quanto cortese e ben educato, è un interlocutore assolutamente banale. Se si ammala, si preoccupa più di cercare informazioni concrete che una cura alla malattia; se perde qualcuno di caro, si consolerà dicendo che prima o poi a tutti tocca morire. Parlando del tempo, dirà probabilmente che non ci sono più le mezze stagioni; se accade una tragedia, dirà che gli dispiace, ma si sa, in fondo, che certe cose non si possono evitare; se c’è una crisi, dirà che tutti attraversiamo, in fondo, degli alti e bassi.
Il suo linguaggio si mostra in linea con questo connotato di impersonalità, essendo costruito su parole svuotate di ogni significato simbolico, per divenire la rappresentazione stereotipata di termini meccanici privi di ispirazione. Le conversazioni vengono ridotte così a cortesi scambi di convenevoli, inconsistenti e privi di contenuti saturanti, la replica avvilente di espressioni già dette (Bollas, 1989).
E se mai si arrischia a produrre un pensiero meno artificiale, è solo in conformità a quel mondo inautentico che lo ispira. Dunque può chiedersi cosa può fare per risultare più uguale agli altri, cosa può comprare per sentirsi nella norma, o con quali beni materiali può riuscire ad acquietare la sua insaziabile sete di normalità.
È capace di trascorrere ore all’interno di supermercati, magazzini, negozi colmi di quella concretezza che riempie il suo vuoto esistenziale e lo avvolge in una sorta di reverie, piacevole e tuttavia superficiale, come è superficiale l’ammirazione che prova verso oggetti di cui può apprezzare soltanto l’aspetto estetico – e che alla fine deciderà di acquistare non per il loro valore intrinseco o per l’utilizzo che potrà farne, ma soltanto per la loro gradevolezza estetica, o per la capacità che avranno di farlo sentire più uguale agli altri.
Incapace di vivere i propri stati soggettivi, egli manca di fantasia e di capacità rappresentativa. Per lui esiste solo ciò che riesce a percepire con i canali sensoriali. Un colore è un colore, una forma è una forma. Non c’è nulla oltre a ciò che può essere visto o toccato. Nulla riesce a scalfire la superficialità dietro cui si trincera, e che lo rende capace soltanto di imitare, di riprodurre, poiché teme letteralmente di creare qualcosa di esclusivamente suo.
“…Vi sono persone che possono essere malate in senso psichiatrico per uno scarso senso della realtà. Per equlibrare questo, si dovrebbe asserire che vi sono altri così fermamente ancorati alla realtà percepita oggettivamente, da esser malati nella direzione opposta, di non essere in contatto con il mondo soggettivo e con l’approccio creativo alla realtà“. (Winnicott, 1971, pp. 121-122).
Il normotico è “straordinariamente vuoto” (Bollas, 1989). Così non esiste nulla che gli appartenga davvero: il suo stesso Sé diventa il mero prolungamento di una massa dominante, rappresentata come un oggetto superegoico che punisce ogni velleità differenziante, e il Sé dell’altro perde ogni valenza individuale per venir inserito all’interno di questa massa informe, nella quale lui stesso si dissolve alla ricerca di un rifugio, un’imago paterna idealizzata che protegge e rassicura dalla terribile “minaccia identitaria”.
Incapace di realizzare, ma anche di desiderare qualcosa di più profondo, egli si sente in dovere di ritrarsi ogniqualvolta un legame sociale rischia di valicare quel confine di normale conoscenza che tanto lo rassicura, facendolo sentire nulla più di un’identità mescolata in mezzo a tante altre.
Non c’è dunque da stupirsi se non riesce a costruire amicizie e neppure inimicizie. Un pensiero ossessivamente conformistico lo preserva dallo stesso concetto di invidia, intesa come quella pulsione di odio distruttivo che spinge a desiderare i beni altrui per sentirsi ed apparire migliori. L’invidia presuppone infatti il riconoscimento di un confine tra il Sé e l’oggetto invidiato, e soprattutto implica la consapevolezza di un Sé narcisistico che ambisce ad emergere, a superare gli altri in potere e dominio (Klein, 1957).
Al contrario, il normotico non vuole apparire migliore di nessuno. Vuole essere come gli altri. Nulla di più, né di meno. Il suo desiderio non è ispirato da un narcisismo autocompiacente, ma soltanto alla volontà di lasciarsi inghiottire in un vuoto privo di identità che, avviluppandolo, lo rassicura, mettendolo al riparo da quell’elemento creativo imprescindibilmente connesso alla vita.
La sua è un’esistenza massificata, in cui la massa non rappresenta soltanto una parte del Sé, ma è lo stesso Sé, in una sovrapposizione patologica che impedisce la relazione oggettuale e la simbolizzazione, rendendolo ostaggio di una bidimensionalità ontologica, epistemofilica ed emotiva.
Più che alla norma, il normotico è fedele alla normalità. E in questo “cimitero dell’immaginario” la normalità è la sua unica legge.
Articolo di Marta Rebecca Farsi
Riferimenti:
Bollas, C. (1989) L’ombra dell’oggetto, Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Raffaello Cortina, Milano.
Giovacchini, P.L. (1972), The blank self, in Tactics and Techniques in Psychoanalytic Therapy, Hogarth, London.
Klein, M. (1957) Invidia e Gratitudine, Giunti Firenze.
MacDougall, J. (1992) Plae for a measure of abnormality, Brunner- Mazel, London.
Winnicott, D.W. ( 1971) Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974.
Fonte: https://www.stateofmind.it/2023/04/normalita-normotici-bollas/
Commenti
Quando la Normalità diventa Anormale: il Caso dei “Normotici” — Nessun commento