Ricerca della solitudine: indice di disagio o valore aggiunto?
Dott.ssa Martina Rosadoni
Sentire la necessità di trascorrere del tempo soli con se stessi è un’esperienza comune e le motivazioni che ne sono alla base, possono essere le più disparate.
Benché sia riconosciuto come un bisogno estremamente naturale e condiviso, molto spesso nutriamo atteggiamenti ambivalenti nei confronti della solitudine, termine che nell’immaginario collettivo si colora di una sfumatura di significato prevalentemente negativo.
La solitudine può essere associata a inadeguatezza, inettitudine, incapacità o disagio relazionale; può anche spaventare e la tendenza è quindi quella di rifuggirla. Tuttavia, un’analisi più attenta del fenomeno può rivelare una vasta gamma di valenze e interpretazioni possibili. A questo proposito viene in aiuto il vocabolario inglese, in cui compaiono termini diversi per indicare i due poli opposti del continuum, lungo cui si snoda l’esperienza della solitudine, quello “buono”, salutare e costruttivo, e quello negativo, disfunzionale e problematico: ‘solitude’ e ‘loneliness’.
Il primo termine racchiude l’accezione positiva della parola solitudine, ovvero la capacità di trascorrere del tempo in intima connessione con se stessi, “staccando la spina” dalle interazioni sociali in un mondo sempre più interconnesso, frenetico e multi-tasking. Concedersi del tempo per dialogare tra sé e sé, ricaricarsi, ri-centrarsi, è un modo per vivere la solitudine costruttivamente, come una condizione dalla quale poter attingere energia. Questi momenti sono importanti per il benessere psicologico tanto quanto le interazioni sociali e le due dimensioni non si escludono a vicenda, anzi: il tempo dedicato a se stessi rende più consapevoli e più forti per interagire con gli altri.
Se solitude indica la capacità di stare soli in modo positivo, loneliness si riferisce invece all’esperienza, solitamente molto dolorosa, del sentirsi soli. Si sperimenta isolamento sociale quando ci si sente incompresi, tagliati fuori, diversi. Può essere una condizione di esclusione subita passivamente oppure attivamente ricercata perché, benché nociva per alcuni aspetti, probabilmente funzionale ad altri e utilizzata come una sorta di meccanismo di protezione da pericoli sentiti come peggiori. In questo caso la ricerca di solitudine può essere considerata un vero e proprio campanello di allarme, la spia di una condizione di difficoltà potenzialmente problematica.
La psicologa Ellen Hendriksen ha individuato diverse motivazioni alla base della condizione di solitudine, alcune assolutamente costruttive, altre potenziali indicatori di un disagio sottostante:
1. Introversione
Le persone introverse sono quelle che traggono piacere dal trascorrere del tempo sole con se stesse, lavorando, dedicandosi ad hobby e attività piacevoli, o semplicemente assorti nella lettura o nei propri pensieri: sono infatti spesso chiamati i “pensatori”. Come suggerisce il termine stesso, queste persone sono tutte rivolte alle esperienze interne ed hanno perciò una ricca vita interiore. Gli introversi non sono totalmente avversi alle interazioni sociali, che possono alla fine anche risultare per loro soddisfacenti, ma preferiscono di gran lunga gli scambi vis-à-vis o in piccoli gruppi, ove è possibile ricreare condizioni di maggior intimità. Gli introversi si ricaricano di energia trascorrendo del tempo soli con se stessi al pari di come gli estroversi traggono giovamento dalle interazioni sociali.
2. Giù la maschera
Una parte dell’identità personale è costituita dall’identità sociale, espressione con cui si intende l’insieme dei ruoli e delle immagini di noi stessi che offriamo agli altri e che ci vengono attribuiti dagli altri. Se, da una parte, mantenere tale immagine è ciò che permette di sperimentare il senso di appartenenza ad un gruppo, dall’altra può risultare stressante ed estenuante “mantenerla indosso” per un tempo prolungato, soprattutto se risulta essere molto lontana da come ci si percepisce realmente. Stare soli con se stessi può diventare allora l’occasione per togliere la maschera e riconnettersi con la parte più autentica di sé.
3. Ansia sociale
L’ansia sociale è una condizione di intenso timore e imbarazzo che è possibile sperimentare quando ci troviamo coinvolti in interazioni sociali (soprattutto non intime), o impegnati in prestazioni che dobbiamo svolgere di fronte a qualcuno. La vergogna è un’emozione comune e naturale, che ci preserva dal rischio di essere criticati ed esclusi dalla cerchia sociale. Tuttavia, tale ansia può trasformarsi in un vero e proprio disturbo, se la paura del giudizio altrui e del rifiuto è così intensa da impedire alla persona di mettersi in gioco, portandola a preoccuparsi eccessivamente prima, durante e dopo un episodio di interazione sociale, o inducendola ad evitare di esporsi, risultando così una condizione limitante in molte aree di vita importanti. In questo caso, l’isolamento sociale è attivamente ricercato, inteso come protezione preventiva rispetto alla possibilità di poter commettere errori, fare figuracce ed essere di conseguenza criticati e allontanati, arrivando però a costituire un fattore di mantenimento del disturbo stesso.
A questo proposito, per riuscire a capire se il desiderio di stare da soli è riconducibile allo stato di solitude o a quello di loneliness, ovvero se si tratta di una ricerca di solitudine costruttiva e rigenerante o se non sia piuttosto un evitamento guidato da un livello eccessivamente elevato di ansia sociale, la stessa studiosa suggerisce di interrogarsi con alcune semplici domande ispirate a situazioni di vita quotidiana, ad esempio:
– Il tuo cuore rimbalza quando squilla il telefono? Senti il tuo cuore accelerato quando ti invitano ad una festa, cena ecc.?
Come reagisce il tuo corpo di fronte ad una potenziale interazione sociale? Quando qualcuno ricerca la tua compagnia o la tua attenzione, osserva la tua reazione fisica: se provi terrore associato a sintomi fisici quali accelerazione cardiaca, respirazione affannata, agitazione di stomaco e sudorazione, probabilmente si tratta di ansia sociale percepita a livelli significativi. L’evitamento dell’interazione sociale (utilizzato come strategia per abbassare tale livello di ansia), ha caratteristiche diverse rispetto alla decisione intenzionale di non rispondere al telefono, ad esempio, per mancanza di voglia o perché in quel momento impegnati in altre attività.
– Cosa provi quando sei da solo/a?
Se la decisione di stare da soli è dettata dall’esigenza di rigenerarsi e ricaricarsi, non è da considerarsi un campanello di allarme. Se invece la scelta di declinare inviti a partecipare ad eventi sociali, considerati fonti di ansia, è seguita da una sensazione di immediato sollievo, è necessario prestare attenzione. Questo infatti potrebbe risultare una via di fuga, un evitamento, che a lungo andare impedisce sia di prendere confidenza con situazioni percepite come minaccianti, sia di sperimentarsi dal vivo e constatare che lo scenario peggiore immaginato attorno all’evento, non si sia effettivamente verificato nella realtà.
– Riesci ad essere te stesso/a quando sei con gli altri? Se non ci riesci, cosa pensi che potrebbe succedere se gli altri ti vedessero per come realmente sei?
Potresti pensare che mostrare e condividere quello che sei realmente non sia una mossa sicura. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che dentro di te, in profondità, senti ad esempio di essere non amabile, inaccettabile, debole o senza valore… Se riconosci queste convinzioni profonde, è consigliabile parlarne con un terapeuta qualificato.
– Il tempo speso da solo/a ti impedisce di vivere una vita felice e in pienezza?
Se il tempo speso da solo/a ti aiuta a ricaricarti e a dedicarti ai tuoi progetti, è possibile considerarla un’esigenza di solitude. L’isolamento (loneliness) può diventare problematico nel momento in cui diventa una fuga dal mondo che impedisce la realizzazione personale: l’ansia sociale diventa disturbante, nel momento in cui priva della libertà di scegliere come e con chi spendere il proprio tempo, costringendo la persona a “tagliarsi fuori” dalle relazioni sociali.
Il quadro, inoltre, è ulteriormente complicato dal fatto che la condizione di solitudine può rappresentare una conseguenza secondaria ad un disturbo primario di altro tipo. Essendo la socialità una delle sfere più importati nella vita di una persona, è anche una delle prime aree su cui si riflettono gli effetti di un disagio sottostante, in un’ottica di funzionamento integrato dell’essere umano che prende il nome di modello bio-psico-sociale. Possiamo infatti riconoscere il ritiro sociale come manifestazione trasversale a tantissimi altri disturbi psicologici, come ad esempio la depressione, il disturbo da stress post traumatico, i disturbi del comportamento alimentare, alcuni disturbi della personalità, solo per citarne alcuni…
Come per ogni altra dimensione dell’esperienza umana, comunque sia, anche la riflessione in merito alla solitudine e alla sua interpretazione, non può assumere un significato universale e non può prescindere dalla soggettività con cui tale esperienza viene vissuta e riferita.
Articolo della Dott.ssa Martina Rosadoni
Tratto da:
https://www.psychologytoday.com/blog/how-be-yourself/201606/is-it-solitude-or-loneliness-4-questions-help-you-tell
http://www.quickanddirtytips.com/health-fitness/prevention/mental-health/sometimes-i-just-want-to-be-alone%E2%80%94is-that-normal-part-1
http://d.repubblica.it/lifestyle/2015/10/01/news/solitudine_costruttiva_esperienza_dolorosa_vista_in_chiave_positiva-2678056/?ncid=fcbklnkithpmg00000001
Fonte: http://www.ansia-sociale.it/news/ricerca-di-solitudine-indice-di-disagio-o-valore-aggiunto/
Ricerca della solitudine: indice di disagio o valore aggiunto?….
decisamente un valore aggiunto, soprattutto in tempi come questi dove milioni di umani si stordiscono in feste, musiche e droghe pur di non sentire il loro mondo che gli crolla intorno..