Parlare lo stesso Linguaggio
di Iside Fontana
Curare una persona è maneggiare con cura il suo mondo, riconoscere il suo posto nel mondo. Dai trials clinici all’organizzazione della sanità, dagli ambulatori alle sale operatorie, tutto è in gemente attesa di cogliere i primi segni della nuova umanità nascente.
Inizio con una storia. Un uomo in un letto d’ospedale. Respira con fatica nell’intorpidimento di una coscienza obnubilata. Tubi e cavi entrano ed escono dal suo corpo ormai agli sgoccioli. Il cancro ha mangiato tutto quello che c’era. La moglie è stata al suo fianco nei due anni precedenti, trascorsi più che altro in ospedale, con pochi giorni di intervallo a casa, tra un’operazione e l’altra. Da alcuni giorni i medici sono stati espliciti come non mai: siamo alla fine.
Alla sera, riluttante ad andarsene, la moglie chiede al medico: “È il caso che io resti per la notte?“. “No – risponde il medico – se abbiamo bisogno chiamiamo noi” e se ne va. Un ultimo sguardo al marito, la donna torna a casa nel turbine di emozioni avvoltolate in un cuore che non è abbastanza grande per contenerle tutte. Alle cinque del mattino la telefonata: “suo marito è morto alcuni minuti fa”.
La donna non se ne capacita, “eppure l’ho chiesto al medico, mi ha detto che potevo andare a casa, avrei potuto essergli accanto, tenergli la mano, è morto da solo”. Quell’uomo è mio zio, quella donna mia zia. Era il 18 settembre 2019.
Ho riflettuto molto su quell’incomprensione. Due linguaggi diversi, due assetti mentali diversi, ma forse due diverse prospettive sulla vita.
A caldo, i primi pensieri sono stati quelli più classici: il solito medico indifferente, meccanico e freddo, oltre ogni distanza empatica. Poi mi è venuto il dubbio che ci sia qualcosa di più grosso in ballo.
Non può essere solo indifferenza, dimestichezza con quelle situazioni al punto da renderle routine, fuori uno dentro il prossimo… Mi sembra che qui ci sia una diversità di sguardo sul mondo, di interpretazione e di senso.
Per mia zia la domanda era chiara: “È il caso che io resti per la notte?” per lei significava essere accanto al marito in un momento così importante per lui, per lei, per la loro relazione, per il modo in cui avrebbe potuto piangere la sua morte.
Per il medico la domanda era funzionale, probabilmente non aveva alcun senso, in fondo quell’uomo stava morendo, non c’era nessun campanello da suonare, nessuna padella da svuotare, l’assistenza familiare sarebbe stata inutile. Doveva soltanto morire, nient’altro da fare. Gli infermieri avrebbero sentito il cambio del bip delle apparecchiature cui era collegato, avrebbero chiamato il medico di turno per certificare la morte. Quali bisogni?
Sarebbe bastato il riconoscimento di un bisogno non infermieristico a permettere alla moglie di stare accanto al marito fino alla fine? Non credo che sia questo il punto. Non sto parlando dell’aggiunta di uno strato superficiale di gentilezza, un moto di commozione per concedere ad una donna di stare a bordo letto, pur sapendo che sarebbe stato del tutto inutile.
Sto parlando di una trasformazione radicale di prospettiva. Intanto abbiamo bisogno di un linguaggio condiviso, dove diamo alle parole lo stesso ambito di significato. Abbiamo bisogno di allargare il raggio di ciò cui diamo valore in tema di vita. Che cosa intendiamo per vita? Che cosa intendiamo per morte?
Non si tratta ovviamente di definizioni, ma di esperienza. Vivere la vita da dentro, sentirla muoversi, crescere, modellarsi nella sua potenza dentro di noi. Riconoscerne i tratti esondanti rispetto agli argini di un corpo mortale.
Questo implica un lavoro di trasformazione di sé, di trivellamento fino alle profondità più abissali dove incontrare lo spirito. È innanzitutto un impegno personale, la decisione presa per sé di capovolgimento della propria antropologia.
La medicina e le strutture sanitarie che noi sperimentiamo oggi sono l’espressione di un modo rappresentativo di vedere le cose. L’oggettività distanziata tiene lontani: monitoraggio di parametri vitali identificati con battito cardiaco, ritmo respiratorio, glicemia, poco altro. La vita di un essere umano contenuta in poche righe in una cartella informatizzata, evanescente ed a-nonima, a-storica, appunto senza una sua storia.
Se non vogliamo ridurci ad un mucchio di cenere, abbiamo bisogno di un modo iniziatico di riconoscere la vita e l’umano. Non so cosa possa significare concretamente. Mi sembra però che non basti rendere più confortevoli le stanze di ospedale.
Certamente è un bel vantaggio avere una sistemazione alberghiera, con bagno in camera e cibo nutriente, magari un quadro alle pareti, un’illuminazione più rotonda e meno abbagliante, la vista su un parco, personale gentile, non asfissiato da una burocrazia persecutoria. Tutto questo sarebbe un gran guadagno, ma ancora del tutto insufficiente, perché sempre all’interno dello stesso schema.
Il richiamo di molta medicina cosiddetta alternativa o complementare è dovuto ad una relazionalità medico-paziente più disponibile all’ascolto, più delicata. Eppure ho ancora l’impressione che, pur con molti esempi anche di medici che cercano davvero di guardare alla persona nella sua interezza, in una prospettiva olistica, lo schema che agisce sia ancora quello di un io ego-centrato, dove si continuano ad esercitare le stesse dinamiche di potere, sia pure all’apparenza attenuate.
Quale cura per un io relazionale? Proviamo a tracciare almeno qualche presupposto.
Avere la consapevolezza di provenire da uno stesso Spirito. Sentire la relazione come già parte del movimento della cura. Entrare insieme dentro il dolore, scendere con la persona nella sua ferita, farsi emolliente per le sue paure.
In questo modo, imparare a capire cosa la persona possa sopportare in quel momento della sua storia, senza forzare, senza imporre. Sentirsi dentro la stessa alleanza.
Curare una persona è maneggiare con cura il suo mondo, riconoscere il suo posto nel mondo.
Dai trials clinici all’organizzazione della sanità, dagli ambulatori alle sale operatorie, tutto è in gemente attesa di cogliere i primi segni della nuova umanità nascente.
Articolo di Iside Fontana
Fonte: https://www.darsipace.it/2022/11/03/parlare-lo-stesso-linguaggio/
Che belle queste riflessioni: condivido; gli ospedali sono sempre stati disumanizzati, ma in questi ultimi due decenni sono precipitati in un abisso di freddezza! E’ una chirurgia glaciale, sterile, efficace…ma solo per il corpo e noi non siamo solo un corpo e non lo sono nemmeno coloro che lavorano in quei posti…ma lo diventano: si trasformano in macchine efficienti, con protocolli rigidi e perdita progressiva di umanità! Prendiamone atto: il mondo merita ben altro, per me!