Nascere e morire
di Paolo Vita
La nascita è sempre considerata un avvenimento gioioso, mentre la morte, nonostante gli insegnamenti religiosi basati sull’immortalità dell’anima, spaventa l’uomo, che la vive come annientamento finale.
Quando si annuncia la gravidanza di una donna, parenti ed amici si precipitano a congratularsi con la gestante, col marito ed i parenti più prossimi, ritenendo tale evento molto felice e propizio. La cosa diventa ancor più eccitante quando la madre partorisce felicemente ed il bambino viene alla luce sano e vispo.
È giusto che sia così dal punto di vista dei genitori e dei nonni, che coronano in questo modo un loro desiderio di genitorialità e discendenza. In passato poi ricordiamo che i figli rappresentavano un aiuto alla famiglia nel lavoro dei campi, o nella pastorizia, tanto che ci si augurava che il nascituro fosse maschio, così che avesse buone braccia per il lavoro, e non fosse destinato ad andarsene di casa, per seguire un futuro marito. Infine l’emergere di una nuova vita è di per sé un fatto eccitante per tutti e il corpicino del neonato stimola in noi un senso di commozione.
Tutti questi sentimenti potrebbero anche farsi risalire all’inconscio istinto di conservazione della specie, senza il quale forse la razza umana si estinguerebbe; quindi potrebbero essere un mezzo, un trucco della Natura, più che una serie di motivi spontanei.
La morte:
Nonostante gli insegnamenti religiosi, basati sull’immortalità dell’anima, la morte ha sempre spaventato l’uomo, che non ci vuole pensare, non la vuole sentire menzionare, la teme come un annientamento, la fine dell’esistenza, il distacco dalle persone care e dalle cose lungamente accumulate e tesaurizzate.
Woody Allen disse in una sua battuta: “Non è che ho paura di morire. E’ che non vorrei essere lì quando questo succede”. Si racconta anche che in una casa di riposo americana ci fu una protesta, quando la direzione mise nella compilation di canzoni da diffondere in salone, la famosa canzone di Frank Sinatra “My way”. Essa inizia con le parole: “And now, the end is near ad so I face the final curtain …” (“Ed ora la fine è vicina ed io affronto il sipario finale…”).
Forse dietro a questa paura c’è l’istinto di conservazione, che provvede a preservare la vita materiale, a scanso di facili abbandoni, che minerebbero la continuità della specie. C’è però anche la paura dell’ignoto, il non sapere – nonostante la fede di alcuni – cosa sarà di noi dopo la morte, questione che fu ben espressa da Shakespeare nel famoso monologo dell’Amleto.
La paura della morte e di quello che ci aspetta è un elemento così importante nell’esistenza umana, da essere forse l’origine principale delle speculazioni filosofiche, cioè la ragione stessa della nascita delle varie filosofie. Viceversa, possiamo osservare che nella pratica quotidiana, l’argomento stesso della morte viene generalmente evitato o sussurrato e nessuno ci spiega, o insegna alcunché di preciso su tale evento, tanto importante per tutti e tanto temuto. Pascal disse: “Gli uomini, non avendo nessun rimedio contro la morte, la miseria e l’ignoranza, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai”.
Anche molte persone anziane, che non possono statisticamente sperare di vivere più di pochi anni ancora, vivono spesso come se la morte riguardasse solo gli altri e si sgomentano al sentire che qualche loro conoscente è morto. Ad ogni compleanno si usa augurare al festeggiato altri “cento di questi giorni”, come se una vita lunghissima fosse la cosa più bella del mondo.
Quando una persona è affetta da una malattia mortale, i parenti in genere evitano di dirglielo e se essa se ne rende conto, fingono che guarirà e vivrà ancora a lungo. C’è chi teme e presagisce di morire in circostanze paurose, come: affogando, restando vittima di un’aggressione, cadendo da un precipizio, o da un alto edificio, oppure soffocato. A parte il fatto che questi timori non riguardano tanto la morte, quanto la sofferenza, o lo stress antecedente ad essa, gli studi in merito hanno rivelato che tali timori sono per lo più conseguenza non di un presagio, ma di un’inconscia reminiscenza di una vita passata, in cui tale evento si verificò, lasciando un’impronta di timore.
Quando qualcuno muore, parenti ed amici se ne rammaricano, vivendo l’evento come una disgrazia e, prima che ciò accada, tutti fanno di tutto per evitare tale evento, prodigandosi in cure, operazioni chirurgiche, rianimazione e quant’altro, per cercare di mantenere in vita quel corpo, a cui sono attaccati sentimentalmente ed abitudinariamente.
Nonostante la piena consapevolezza che siamo tutti mortali e che la nostra vita non può durare più di tanti decenni, rifiutiamo inconsciamente di morire e di lasciar morire i nostri cari. Quando poi la morte ci coglie di sorpresa, come nel caso di incidenti, malattie fulminanti, guerre, aggressioni, e così via, non ci rassegniamo all’evento, protestando, ripensando a quanto avremmo potuto fare per evitare una simile disgrazia, recriminando, o nutrendo sentimenti di vendetta contro chi riteniamo il responsabile della morte della persona cara.
Dopo il funerale, ci premuriamo di andare a trovare il defunto al cimitero, portandogli fiori e candele, come se ciò potesse compensarlo della “disgrazia” di essere morto e nel tentativo di perpetuare la nostra familiarità con lui. Questo è comprensibile, ma fa parte dell’attaccamento umano tra persone fisiche, del desiderio di avere ancora l’altra persona presente materialmente presso di noi, di toccarla, di abbracciarla, di parlarci, di trascorrere con lei le nostre ore migliori. Insomma, a pensarci bene, quando piangiamo un defunto, piangiamo sostanzialmente per noi stessi, che lo abbiamo perso. Altre volte piangiamo per i sensi di colpa, che proviamo per aver intrattenuto col defunto rapporti conflittuali, a cui crediamo di non poter più rimediare, o per non aver fatto interamente il nostro dovere nei suoi confronti.
Spesso ci prodighiamo in elogi del defunto, quasi a placare tali sensi di colpa; tanto ormai ogni rivalità o contrasto sono superati dalla definitiva separazione! Del resto, un eventuale discorso in occasione del funerale viene espressamente definito “elogio funebre”. Mio nonno soleva citare scherzosamente il proverbio: “Dio ti guardi dal dì della lode”, a significare che solo dopo la morte una persona viene elogiata senza remore.
Sembra che nella cultura dominante ci sia una grande disinformazione sulla morte e la vita dell’Aldilà. Questo libro si propone come un contributo riassuntivo delle molte ricerche svolte da appassionati scienziati e sensitivi sull’argomento, nella speranza che qualche lettore se ne avvantaggi, per accettare più serenamente la perdita di un congiunto o andare incontro egli stesso alla morte con animo più tranquillo.
Articolo tratto da: “Morire è bello” di Paolo Vita, per gentile concessione dell’autore.
Il libro completo è accessibile gratuitamente (insieme ad altri) dal sito: http://redazionevita.altervista.org
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Sono Paola non sempre va bene la trascendenza. Dopo millenni si stanca perché e solo un illusione costruita. Il rigenerato alle volte non funziona. Soffre e la solitudine uccide di più. Ciao paola