Un’etica del limite. Critica della “società postmortale”
di Marco Dotti
Viviamo in una società dove alle scienze biomediche è assegnato il diritto esclusivo di rispondere alle domande sulle cose ultime, fondamentali per la vita e costitutive per la comunità. Transumanesimo, postmortalità, idea di una generazione senza padri e senza madri: segni inquietanti, spacciati per “diritti” e “libertà”, di una delega in bianco agli apparati tecno-scientifici e al nichilismo giuridico che li sostiene.
Ne discutiamo con Luciano Manicardi, vice priore della Comunità di Bose. Gli uomini, scriveva Blaise Pascal, “non essendo potuti guarire dalla morte, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci più”. Per quanto contraddittoria possa sembrare, la riflessione di Pascal appartiene ancora a una strategia di saggezza, quella medesima saggezza che nel Trecento, dinanzi all’avanzata della peste, permise a teologi e artisti di elaborare una consolatoria ars moriendi. Vita e morte erano compresenti, eppure distinte. La morte era il limite, la vita la forma. “Incerta omnia, solo mors certa” insegnava d’altronde Sant’Agostino, che in quella certezza circoscriveva il rischio della vita e la sua scommessa sul senso.
Oggi le cose sono cambiate. Viviamo in quella che la sociologa canadese Céline Lafontaine ha chiamato “società postmortale”. La società postmortale comincia proprio là dove le frontiere tra la vita e la morte si confondono e si ingarbugliano e non solo gli uomini, pascalianamente, non ci pensano, ma un intero apparato tecno-nichilista assume per sé e su di sé una delega in bianco e opera per l’espulsione del limite – di ogni limite – e del suo portato sociale e simbolico dall’orizzonte di un’esistenza che, senso o non senso, procede oramai per proliferazione, più che per generazione.
Senza limiti
L’idea di morte, e con essa l’idea di tempo e di limite, sono venuti meno. Oggi non si muore più, si muore “di qualcosa”: la morte si è scomposta, decostruita, deritualizzata, frammentata, sottratta alla sfera sociale.
Luciano Manicardi, vice priore della Comunità monastica di Bose, ha riflettuto a lungo sul senso di questa rottura sistemica. A lui dobbiamo una delle più interessanti analisi sulla società postmortale. Società caratterizzata dalla volontà di vivere senza invecchiare, di valorizzare la privatizzazione della morte (il caso della legge belga sull’eutanasia infantile, è un punto critico in tal senso).
Se la morte è sempre stata addomesticata con riti e simbolizzazioni che ne facevano un momento di riaffermazione della coesione sociale, ora, ci spiega Manicardi, «abbandonata all’individuo e privata di ritualizzazioni, essa appare sganciata da una comunità e scissa dal legame sociale, sicché lascia l’uomo non tanto in una grande libertà di scelta, ma in una angosciosa disperazione e solitudine. Come ha scritto Norbert Elias: “Mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli”.
Abbiamo incontrato padre Manicardi: quella che segue è una conversazione con lui. Speriamo possa contribuire al dibattito.
D: Ogni società si basa su una scommessa di immortalità. Che tipo di scommessa è la nostra? Mai come oggi la morte appare rimossa e al contempo sovraesposta, esorcizzata e “normalizzata”: si tratta forse di “gestire la morte” attraverso apparati ipertecnici, più che di interrogarla?
Nel momento stesso in cui l’uomo si scopre mortale, elabora strategie di superamento della morte. Si tratti di dare un futuro a se stesso attraverso i figli e la discendenza, si tratti di una strategia religiosa che intravede una vita post-mortem, si tratti di una strategia politica come avveniva nell’antica democrazia greca, in cui l’eroe che moriva giovane sfuggiva alle ingiurie della vecchiaia e si assicurava fama imperitura, cantata e narrata di generazione in generazione dagli aedi, sempre il limite della morte ha costituito per l’uomo una sfida da accogliere cercando di superare in qualche modo quello stesso limite. Se questo avviene di fronte a qualunque tipo di limite, “la morte costituisce, tuttavia, il paradigma del limite insuperabile, il limite per eccellenza, il limite dei limiti. Ciò che oggi avviene circa la morte e il morire, riguarda in definitiva la sfida che il limite pone all’uomo.”
La scommessa della nostra società occidentale odierna non è religiosa né politica, ma è radicalmente secolarizzata e individualista: essa intravede la possibilità, lasciata balenare dall’imponente arsenale biomedico dispiegato, di poter vincere la guerra contro la morte, di toglierle la qualità di ultima parola sulla vita dell’uomo. Mentre la biogenetica sta cercando di creare la vita, l’ingegneria geriatrica e la medicina rigenerativa cercano di allungare la vita e di far morire la morte. In questo contesto, l’esibizione e la sovraesposizione della morte è l’altra faccia della sua riduzione al mutismo. Mai come oggi in realtà si è parlato di morte, ma anche l’inflazione di parole sulla morte può essere la forma con cui si zittisce la morte stessa e le si impedisce di parlare. Le si toglie la sua qualità non solo di parola ultima, ma di parola originaria. E la si zittisce perché ci dice una sgradevole verità: “la vita è limitata, ha cioè una fine, e proprio a partire da questo assunto, così elementare e semplice si può vivere una vita “contenta” e anche eticamente impegnata. Assumendo un’etica del limite”.
Atteggiamento aggressivo nei confronti della morte, è dunque l’atteggiamento post-moderno di radicalismo individualista che si esprime dicendo: “che la morte è mia e me la gestisco io, che io pretendo il ‘diritto’ di morire come, dove e quando voglio”. Ma accanto a questo, non si può nascondere l’approccio umanizzante al morire che si sta facendo strada nel movimento degli hospice e nello sviluppo delle cure palliative, che reagiscono alla disumanizzazione di un approccio biomedico che ha come unica finalità l’allungamento della vita biologica. In questi ambiti si cerca di ridare parola al morire, ritenendolo parte costitutiva del vivere.
D: Che cosa ci dice, sul tipo di società in cui viviamo, il fatto che forse per la prima volta gli uomini sembrano convinti di poter vincere la propria partita con la morte? Sembra infatti una scommessa molto diversa da quella formulata da Pascal, dove tutto verteva sul senso (se credo che tutto abbia senso, e non lo ha che cosa perdo? Ma se credo che nulla abbia senso e invece ne ha… perdo tutto). Scommessa proiettata in un dopo, in un infinito (tutto-nulla), più che schiacciato su un presente senza flusso…
Ci dice che quella dimensione di salvezza che fino a oggi è stata essenzialmente gestita dalle religioni e che intravedeva un aldilà, oggi viene sostituita dalla salute, bene decisamente più tangibile e palpabile e fruibile per uomini disincantati. Vi è chi parla di religione della salute.
“Le biotecnologie assumono un ruolo religioso, ma radicalmente immanente: la tecno-religiosità promette l’accesso alla vita eterna qui e non nell’aldilà. Le nanotecnologie alleate con l’ingegneria genetica, fanno dell’uomo il soggetto di una nuova “creazione”: uccidendo la morte, l’uomo elimina Dio e si fa lui stesso creatore. All’eternità promessa in un aldilà sentito come non più credibile, si sostituisce la promessa di una eternizzazione della vita qui, nel presente”.
Ci dice del rapporto angosciato che intratteniamo con il tempo. Di fatto avviene la riduzione della dimensione temporale al presente e all’immediato. Il tempo diviene un eterno presente e il futuro è visto solo come proiezione in avanti del presente: non c’è più avvenire, ma c’è solo evoluzione. Il paradigma significativo ci è fornito dalle tecnologie che vivono di continua evoluzione: l’evoluzione tecnologica invade la nostra quotidianità e determina consumi, comportamenti e stili di vita. La società che tenta di eliminare la morte e lo pensa possibile, tende al controllo del tempo, all’eliminazione della responsabilità del futuro e all’instaurazione di una cultura dell’amnesia, che disinneschi le cariche innovative e creative implicite nel lavoro della memoria. Ci dice, in definitiva, del rischio di immaturità, di fossilizzazione, che la nostra società corre.
“La società che persegue il sogno di eliminare la morte (e la vecchiaia, colta come sua premessa e parente prossima) tenta di annullare gli effetti devastanti del tempo, ma in verità arriva a uccidere il tempo stesso.”
Ricordare il limite
D: Nel suo libro “Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale” (Vita e Pensiero, Milano 2011), lei ha molto insistito sul fatto che la coscienza della morte sia costitutiva dell’umano. Eppure, andiamo verso una società postmortale, una società che ha perso memoria del limite che la costituisce. Questo significa che, ben oltre il dato sociologico, è tutta una nuova antropologia ad avanzare?
Sì, si tratta di una antropologia radicalmente individualista che coltiva il pensiero dell’amortalità. Essendo l’immortalità un’ipotesi religiosa inverificabile, ciò che la società postmortale persegue, è il prolungamento indefinito della vita, di una vita che resta nondimeno mortale, in quanto l’uomo potrà sempre perire per incidente o catastrofe o morte violenta…
In questa antropologia si cerca di pervenire a un “corpo senza morte”, un corpo al silicio, di cui ora vediamo solo le anticipazioni parziali nelle protesi o negli innesti di organi e di parti di corpo che ormai sono pratica normale in medicina. Se questi fantasmi diverranno realtà, si potrà ancora dire che l’uomo è il suo corpo? Di certo, si dovrà porre in modo nuovo la domanda: chi è l’uomo?
Altra conseguenza della visione antropologica sottesa al postmortale, è la sua dimensione a-politica a favore di un individualismo radicale. Già ora le politiche nazionali diventano sempre più bio-politiche, centrate sui temi del corpo, del nascere, del morire, della salute e della malattia. A questo si aggiunga l’indifferenza verso le generazioni future: se pensare il futuro e le generazioni future implica il mettere in conto la propria morte, allora si assolutizza il presente in quanto è lo spazio-tempo dell’io, unico soggetto degno di attenzione. Una filosofa americana di tendenza ultraliberale così si esprime: “Le persone anziane non hanno l’obbligo di morire per lasciar posto a un nuovo essere umano” (Christine Overall).
“Se la morte è sempre stata addomesticata con riti e simbolizzazioni, con gesti e parole che ne facevano un momento di riaffermazione della coesione sociale, ora, abbandonata all’individuo e privata di ritualizzazioni, essa appare sganciata da una comunità e scissa dal legame sociale, sicché lascia l’uomo non tanto in una grande libertà di scelta, ma in una angosciosa disperazione e solitudine”. Come ha scritto Norbert Elias: “Mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli”.
Articolo di Marco Dotti
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