“Adamo”: uno schiavo creato per obbedire agli Anunnaki
La Bibbia fa riferimento all’uomo appena creato chiamandolo “Adamo”, un termine generico. Non un uomo chiamato Adamo, bensì “il terrestre”. Infatti, proprio questo è il vero significato della parola Adamo, derivato dalla radice “Adamah”, ovvero “Terra”. Ma il termine è anche un gioco di parole e riflette il modo con cui Adamo venne creato.
Il termine sumero per indicare l’uomo, è “LU”. Ma il suo significato profondo non è “essere umano”, bensì “lavoratore, servo”, mentre come componente di nomi di animali, significa “addomesticato”. L’accadico – la più antica lingua semitica, parlata da Assiri e Babilonesi – in cui è stato scritto l’ “Atrahasis” (il “Poema di Atraḫasis”, la versione paleo-babilonese in lingua accadica del mito del Diluvio Universale, risalente al XVII sec. a.C.), chiamava l’essere appena creato “lulu”, che significa, come in sumero, “uomo”, ma che suggerisce anche il concetto di “mischiare”. La parola “lulu” dunque, nella sua accezione più profonda, significa “colui che è mischiato”, con una chiara allusione al modo in cui Adamo venne creato. Adamo, “il terrestre” o anche “Colui che è del sangue”.
In tutti i testi della creazione ritrovati in Mesopotamia, si evoca un procedimento nel quale un elemento divino viene mescolato con uno umano. L’elemento divino viene descritto come “un’essenza” derivata dal sangue divino e l’elemento terrestre come “argilla” o “fango”: la miscelazione dei geni “divini” degli Anunnaki con i geni “terrestri” dell’uomo scimmia, avviene fecondando l’ovulo di una donna scimmia.
Si trattò, quindi, di una fecondazione in vitro, in provette di vetro e Adamo fu il primo bambino nato in provetta… Chiamato al compito di “creare dei servi per gli dèi”, Enki dette a Ninti le seguenti istruzioni: “Prendi un po’ d’argilla dal cuore della Terra, appena sopra l’Abzu, e dalle forma di una noce. Io fornirò giovani dèi, bravi ed esperti che porteranno quell’argilla alla giusta condizione”.
L’elemento terreno nella procedura era l’ovulo di una donna scimmia. Ninti faceva affidamento su Enki, affinché fornisse l’elemento terreno, questo ovulo di una donna scimmia dell’Abzu, nell’Africa sud-orientale. La collocazione geografica è molto precisa: non si tratta dell’area dove ci sono le miniere (Zimbabwe), bensì un luogo “sopra di esso”, più a nord.
Il compito di ottenere gli elementi divini era di Ninti. Erano necessarie due essenze estratte da un giovane dio Anunnaki, accuratamente selezionato per lo scopo. Enki ordinò a Ninti di prelevare il sangue e lo “shiru” del dio e di ricavarne le “essenze” attraverso immersioni in un “bagno purificatore”. Ciò che doveva essere ottenuto dal sangue veniva chiamato “TE.E.MA”, tradotto come “personalità”, ovvero ciò che rende una persona diversa da un’altra. Ma la traduzione di “personalità” non esprime la precisione scientifica del termine originale che, in sumero, significa: “Quello che contiene ciò che lega la memoria”. Oggi lo chiamiamo gene.
L’altro elemento per il quale era stato selezionato il giovane Anunnaki, lo “shiru”, è tradotto comunemente come “carne”. Col trascorrere del tempo, il termine ha assunto anche questo significato, ma nella prima accezione sumera faceva riferimento al sesso o agli organi riproduttivi; la sua radice significava “legare” o “quello che lega”. In altri testi in cui si parla di discendenza degli “dèi” non Anunnaki, l’estratto dello “shirru” è chiamato “kirsu”, che viene dal membro maschile, quindi significa lo sperma maschile.
Ninti doveva mescolare bene questi due estratti divini in un bagno purificatore, ed è certo che l’epiteto “lulu” per il Lavoratore Primitivo (colui che è stato mischiato), derivava proprio da questo procedimento. Oggi lo chiameremmo ibrido. Tutte queste procedure dovevano essere compiute seguendo un rigido protocollo sanitario. Un testo racconta persino di come Ninti si lavasse le mani prima di toccare “l’argilla”.
Il luogo dove venivano eseguite queste procedure era una struttura speciale, chiamata in accadico “Bit Shimti” che, derivando dal sumero “SHI.IM.TI”, significava letteralmente “Casa dove viene soffiato il vento della vita” – la fonte, senza dubbio, dell’affermazione divina secondo la quale, dopo aver plasmato Adamo dall’argilla, Elohim “gli soffiò dalle narici un alito di vita”.
Il termine biblico, a volte tradotto come “anima” anziché “alito di vita, è “Nephesh”. Lo stesso identico termine appare nel racconto accadico degli eventi che si verificarono nella “casa dove viene soffiato il vento della vita” dopo che erano state completate le procedure di purificazione e di estrazione: “Il dio che purifica il Napishtu, Enki, parlò. Seduto davanti a Ninti… la incitava. Dopo che essa ebbe recitato le formule di rito, si sporse per toccare l’argilla”.
L’ovulo della donna scimmia fecondato nei “bagni purificatori” con lo sperma e i geni del giovane dio, veniva poi depositato in uno “stampo” dove sarebbe stato completato il “legame”. L’uovo fecondato e plasmato doveva essere poi reimpiantato nel grembo di una donna, ma non in quello della donna scimmia: in quello di una dea femmina Anunnaki. (per questo compito venne scelta Ninki, la sposa di Enki).
La creazione dell’uomo fu complicata da un ritardo della nascita, tant’è che si dovette intervenire chirurgicamente. Ninti “coprì la testa” e con uno strumento, la cui descrizione è, purtroppo, danneggiata nella tavoletta, “praticò un’apertura e ciò che era nel grembo uscì”. Afferrando il neonato esultò di gioia. Lo sollevò affinché tutti potessero vederlo e getto un grido trionfante: “Sono stata io a crearlo! Le mie mani l’hanno fatto!” Era nato il primo Adamo!
Per me questo pianeta non è morto, sta facendo la sua evoluzione come tutti gli esseri che abitiamo nel suo suolo, sia esterno che interno